Tutto qui? È la domanda che si rincorre dall’altra sera dopo che Mario Draghi ha letto la lista dei suoi ministri. Si rimpallano l’interrogativo i grillini duri e puri, quelli dell’ala Di Battista, ma anche i leghisti più convintamente euroscettici, fino ai “patrioti” di Giorgia Meloni: la leader di Fratelli d’Italia già era incerta tra voto contrario e astensione al nuovo esecutivo e ora sembra più propensa al no. La destra e i conservatori più rigidi rimproverano la presenza di figure come Lamorgese, Speranza, Di Maio; all’opposto piovono critiche su Brunetta, Gelmini, Carfagna.
Si è parlato, e scritto, di “Conte ter”, di “migliori” che tali non sono, di un governo che “non è da Draghi”. Soprattutto tra i 5 Stelle e tra i leghisti i malumori sembrano prevalere sulle aspettative di innovazione alimentate alla vigilia. L’argomento prevalente è che l’unica vera novità sia la sola presenza di Draghi, il suo profilo internazionale e l’autorevolezza dei contatti con le cancellerie europee e le istituzioni finanziarie. Draghi ha piazzato qualche suo uomo di fiducia a gestire i dossier economici e della modernizzazione, lasciando ai partiti il resto. Sarebbe più o meno come un allenatore di calcio preoccupato soltanto dell’attacco e non di centrocampo o difesa, o un direttore di giornale attento unicamente alla prima pagina, la vetrina che fa vendere, e il resto mancia.
Tutto qui? A ben vedere, no. Il presidente Mattarella aveva definito quello di Draghi un governo “che non debba identificarsi con alcuna formula politica”. Nonostante la folta presenza di ministri indicati dai partiti, il nuovo esecutivo non smentisce l’indicazione del Quirinale. I tratti distintivi del precedente governo sono infatti spariti. L’asse Pd-M5s ne esce stroncato. Il partito di Nicola Zingaretti, in quanto cinghia di trasmissione con Bruxelles, aveva in mano la politica economica e non ce l’ha più: persa l’Economia di Gualtieri, idem per le Infrastrutture della De Micheli, mentre Franceschini lascia alla Lega (Garavaglia) la delega al Turismo, un settore che vale il 13% del Pil nazionale. I 5 Stelle conservano 4 ministeri ma di scarso peso, e gli Esteri di Di Maio sono poco più che una rappresentanza, visto che il premier si è tenuto la delega agli Affari europei e gestirà personalmente i contatti con i grandi.
Draghi ha scardinato l’intera linea politica tenuta dal Pd nell’ultimo anno e mezzo, quel “o Conte o voto” che Zingaretti e il suo seguito avevano agitato come arma contro Renzi e le spinte al cambiamento, considerando quelli del M5s come voti temporaneamente fuggiti e destinati a rientrare all’ovile. Sono venute alla luce tutte le contraddizioni del movimento di Grillo, compresa l’incapacità dello stesso fondatore di tenere unita la baracca. E la nomina di Marta Cartabia a guardasigilli segna l’archiviazione del giustizialismo pentastellato eretto a sistema.
Allo stesso tempo, il nuovo governo ha riequilibrato anche la rappresentanza territoriale. Nel Conte 2, il ministro che aveva le radici più settentrionali era il ferrarese Franceschini. Dalla sinistra Po, nessuno. Adesso, quattro ministri arrivano soltanto dal Veneto, allo Sviluppo economico si è insediato Giancarlo Giorgetti e la bresciana Mariastella Gelmini è la bocciatura di Francesco Boccia, che ha gestito male i rapporti con le Regioni durante l’emergenza sanitaria. Saranno anche senza portafoglio i rappresentanti di Forza Italia, ma nel governo Draghi sono loro, assieme ai più moderati della Lega e all’ex Dc (e renziano) Lorenzo Guerini a incarnare l’animo centrista della nuova compagine. La Lega già promette di vigilare attentamente sulle mosse di Lamorgese e chiede “un cambio di passo” sulla gestione della pandemia. Tutto qui?
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