Pandemia, morti per virus, guerra. Dalla fine della Seconda guerra mondiale non eravamo mai stati sottoposti a un tale sequenza di fatti tragici che hanno messo in crisi il nostro status percepito come “benessere”, parola su cui in realtà bisognerebbe riflettere, perché spesso significa un quieto vivere fatto di banalità e superficialità.
Paura, ansia, frustrazione ne sono la conseguenza, fenomeni resi insopportabili dal loro apparire senza fine. Come ci ha detto in questa intervista il professor Stefano Parenti, psicoterapeuta e presidente dell’Associazione di Psicologia Cattolica, “non c’è mai pace”, che non è una banalità ma è il livello di insicurezza e di frustrazione che viviamo tutti o quasi.
“C’è una situazione di incertezza generale che nelle persone più fragili apre a questioni cliniche anche abbastanza complesse” dice Parenti. Ma in generale, ci ha detto ancora, “quello che lascia piuttosto allibiti è che in questo stato ci si adagia, si sprofonda, incapaci a uscirne o non volendone uscire appositamente”.
Dalla pandemia alla guerra, stiamo vivendo tempi difficili che inevitabilmente portano al nascere di disagi come paura, ansia e frustrazione. Ce lo può confermare?
Nel mio lavoro, incontrando persone con diversi tipi di disagio, ho potuto toccare con mano come dopo la pandemia si sia sviluppato un senso di incertezza del futuro, soprattutto nelle figure più fragili.
Per persone più fragili intende i giovani? Durante la pandemia è comune parere che siano stati loro a soffrire maggiormente.
No, intendo persone con una struttura caratteriale più fragile. L’incertezza è il termine oggi più usato, incertezza del futuro che genera paura. Ci sono però due aspetti da approfondire.
Ci dica.
Uno è quello diciamo positivo, un’incertezza che lascia un’inquietudine sana che ci premette di riflettere sul senso delle cose e fa sorgere le domande fondamentali. L’altro aspetto è che questo stato di incertezza sembra prolungarsi fino ad apparire infinito.
Cosa suscita questo?
Invece di porci domande sul futuro stesso, su cosa potrà accaderci, ci si rassegna a questo stato di insicurezza, di disagio fino al cinismo. Diventa normale un’abitudine a un mondo che viene percepito cattivo e dominato da forze contrarie al nostro desiderio di stare bene. C’è sicuramente nei giovani, ma di più negli adulti, un nichilismo di fondo che ormai è sedimentato.
Ci può descrivere come si manifesta questo nichilismo?
Come una forma depressiva di passività cinica, che porta a reagire come gli animali secondo l’antica espressione latina homo homini lupus, “l’uomo è un lupo per l’uomo”. Emerge cioè un uomo reattivo alle circostanze che non si interroga più sui perché, ma che le subisce passivamente.
Ma tutto questo cinismo, questo nichilismo, questa mancanza di entusiasmo nei confronti della vita, non era comunque presente, anche se in modo minore, già prima della pandemia e della guerra?
Assolutamente sì. Professionalmente ho seguito due ragazzini nei quali non si accendeva alcun tipo di passione, neanche per gli amici. Quando andavo a scuola quello che ci interessava di più era l’amicizia, oggi si annoiano tra amici. Si trovano, stanno insieme, ma giocano individualmente online, non in gruppo come facevamo noi.
Negli adulti invece?
Negli adulti il nichilismo si vede nel lamento. Se chiedi a qualcuno se ama il suo lavoro, se è contento al mattino di alzarsi per andare in ufficio, è difficile trovarne uno che dica di sì. Manca una formazione del carattere e manca il senso verso la realtà del lavoro, dello studio, degli amici.
Cosa intende per mancanza di formazione del carattere?
Soprattutto i maschi sono molli, senza tempra. Quando c’è fatica da fare al lavoro, o scappano o si lamentano. Uso questa terminologia, fortezza del carattere, che include pazienza e perseveranza. C’è anche la sindrome opposta, quella del lavorismo, quelli che lavorano 24 ore al giorno per scalare il successo. Ma di Steve Jobs ce ne è stato uno solo e per fortuna, perché poi non è stata una figura così positiva come pensano tutti.
Come si può uscire da questo quadro?
Non ci si dà carattere e forza da soli, ci vuole un maestro, dei genitori che sappiano educare. Ha ragione chi dice che la crisi dei ragazzi di oggi è la crisi dei ragazzi di ieri, padri che hanno poche certezze da passare ai figli.
Quindi situazioni drammatiche come pandemia e guerra, invece di farci aprire alla realtà, spalancarci, porci domande, ci stanno facendo sprofondare sempre di più nel nichilismo e nel cinismo?
Come ha detto papa Francesco, “peggio di questa crisi c’è solo il peccato di sprecarla”. L’abbiamo sprecata già altre volte, ad esempio durante la crisi economica del 2008. Manca un braccio solido e duraturo a cui attaccarsi. Durante il primo lockdown si diceva “andrà tutto bene”, ma dove si fondava quella speranza? Sulla comunanza nella paura, ma è un appoggio che non è durato: infatti nel secondo lockdown quelle scritte sono scomparse. C’è bisogno da parte di tutti di riconoscere e trasmettere quello che veramente conta e ci fa tenere in piedi.
(Paolo Vites)
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