La scena che colpisce più direttamente (allo stomaco e al cuore) nell’opera Tosca di Giacomo Puccini, inaugurata a Roma nel gennaio del 1900 e la cui azione è collocata circa un secolo prima in quel giugno del 1814 in cui piomba sulla Roma papalina la notizia della vittoria di Napoleone a Marengo, non è quella finale (Atto terzo): con la fucilazione supposta finta ma che poi si scopre autentica del rivoluzionario Mario Cavaradossi, e il balzo suicida di Tosca dagli spalti di Castel Sant’Angelo.



Parliamo invece di men che una scena: un paio di battute soltanto, nell’Atto secondo. Quando Tosca si rende conto che la vera tortura che Scarpia, capo della polizia, sta infliggendo non è quella fisica, più o meno sceneggiata, sul corpo di Mario, amante di lei, nella stanza accanto; ma è quella che lei, Tosca, subisce senza nemmeno essere toccata: si tratta di quella forma di tortura spirituale che è il ricatto (Mario verrebbe liberato se lei concedesse il suo corpo a Scarpia). È allora che Tosca dice cantando, rivolta al poliziotto dello Stato: “Io – son io / che così torturate!  – Torturate / l’anima –”, e il canto è seguito (nel brillante libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica) da una didascalia: scoppia in singhiozzi strazianti, mormorando; e poi da una battuta recitata più che cantata: “Sì, mi torturate l’anima!”.



È un luogo comune (falso, come la maggior parte dei luoghi comuni) che l’opera sia una rappresentazione artificiosa ed enfatica della realtà; e “melodramma” è un termine ingiustamente calunniato. È vero il contrario: il canto operistico, che stabilisce un legame diretto fra i sentimenti e la parola concedendo un minimo spazio ai filtri intellettuali, è particolarmente adatto a mettere in risalto quelle emozioni sottili che rischiano di essere seppellite per sempre nel non-detto e che invece sono decisive, psicologicamente e socialmente.

Adesso che sembra (ma tutto sarà da verificare) di essere vicini al rilassamento di certe coercizioni – adesso è il momento di gettare uno sguardo lungo sul prossimo futuro: un futuro di cosiddetta “normalità” che invece richiederà due o tre anni, per curare le ferite inflitte al corpo costituzionale del paese e al corpo fisico dei suoi abitanti. Lasciando da parte la politica – ma anche la medicina, anche l’economia, e perfino la psichiatria con il suo linguaggio necessario ma razionalistico – qui la parola operativa è quella di Tosca: l’anima. E vale la pena di sottrarre per un momento questo termine alla retorica mielosa che emana da molti, diciamo così, professionisti dell’anima. Le ferite dell’anima oggi sono piccole: punture di spillo, graffi, gocce che scavano la pietra. Ma queste punture sono quotidiane e umilianti: come quella che molti cittadini sentono ogni volta che debbono “esibire” il passaporto detto sanitario.



Ferite che nutrono l’esasperazione e che – scavalcando i confini ideologici artificiosamente coltivati da chi costruisce le divisioni – vengono poi a incontrarsi con le piccole, continue ferite di chi sta sul lato contrario, quello di chi si allinea alle proibizioni e curva la testa nell’obbedienza dettata dalla paura. Quanta fatica ci vorrà, in una popolazione che viene tormentata da due versanti opposti, per riscoprire – non si dice la solidarietà tanto strombazzata – ma la dignità, e la pace con gli altri?

Queste piccole sofferenze potrebbero sembrare poca cosa di fronte alle tragiche guerre europee, ma non è così: si tratta di due problemi strettamente connessi. Come ignorare, infatti, l’ipocrisia di chi pontifica sulle democrazie occidentali mentre mina dall’interno gli atti costitutivi di queste stesse democrazie?

Un commento in una “chat” che accompagnava una video-intervista tedesca sui divieti e le costrizioni diceva: “Le parole dei miei avversari, le dimenticherò; ma non dimenticherò il silenzio dei miei amici”. Del resto, basta ascoltare il cosiddetto uomo (e donna) della strada in Italia per ascoltare parole forti che designano uno stato interiore autentico – parole come “stritolato”, “schiacciato”, “triturato”.

Attenzione, allora: queste anime sottilmente torturate si preparano a chieder conto – ma non a “fare i conti”. Non si parla di vendicatività (le anime non si fanno guerra tra loro); si tratta di preparare un credibile terreno per quella che dovrà essere una riconciliazione.

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