Le cifre programmatiche nel Documento di economia e finanza sono rinviate a dopo le elezioni. Il Pnrr va rinviato di almeno un anno dal 2026 al 2027. Un rinvio è allo studio anche per l’impatto del Superbonus. L’unico rinvio impossibile è quello del debito che viaggia imperterrito verso i tremila miliardi di euro. Intanto le nubi che si sono accumulate sull’industria si stanno trasformando in temporale: il fatturato è sceso del 3,1% a gennaio e del 3,6% su base annua. E l’ottimismo di facciata ostentato finora cede il posto a una seria preoccupazione. Anche perché non è più nemmeno così certo che a giugno la Bce possa ridurre i tassi d’interesse.
Gli ultimi dati sull’inflazione americana hanno aumentato le cautele della Federal Reserve. È vero che nella zona euro i prezzi stanno scendendo più rapidamente verso il 2% annuo, ma è dubbio che Francoforte si muova per proprio conto prima di Washington. Il che vuol dire che il costo del debito pubblico resterà molto alto in questo anno in cui occorre rinnovare quasi 400 miliardi di euro.
Giancarlo Giorgetti è allarmato e anche nervoso. “Chi paga?”. La reazione alla decisione europea sulle case “verdi” tradisce il suo stato d’animo. Chi paga lo si è capito con il Superbonus e il ministro lo ha ricordato. Su di lui incombe la polemica sulle previsioni dei costi da parte della Ragioneria. Sbagliate o imprevedibili? Perché il Superbonus è una palla di neve che cresce rotolando a valle, ma non scende lungo una pista ben tracciata, bensì va di qua e di là con uno zigzag difficilmente tracciabile ex ante.
Il ministro sta cercando una qualche scappatoia. È emersa l’ipotesi di spalmare su dieci anni anziché quattro come previsto finora i crediti d’imposta generati dal Superbonus. Siccome le spese finora accertate ammontano a 84 miliardi (stime del 2023) ci sarebbe un risparmio di oltre 12 miliardi l’anno. Un altro rinvio della resa dei conti, una boccata d’ossigeno da finanza creativa, non una soluzione.
Sul Tesoro e sul ministro pesano le voci attorno a una sostituzione. Potrebbe essere candidato per l’Ue a un posto di commissario, e rimpiazzato a palazzo Sella. Ma da chi? Secondo una scuola di pensiero, in pole position c’è Maurizio Leo, il plenipotenziario fiscale di Giorgia Meloni. Altri invece vedono già Raffaele Fitto alla scrivania che fu di Quintino Sella. Ma attenzione attorno a lui s’infittiscono le ombre del Pnrr. Il ministro ne ha preso la guida, lo ha rivisto, in alcune parti riscritto, s’è perso tempo, è stata avviata una lunga discussione a Bruxelles, infine è partito, ma troppo resta ancora sulla carta. Non ci sono cifre chiare su che cosa è stato avviato davvero, non è stata fornita una mappa aggiornata dei cantieri. E fioccano polemiche, rimproveri, ripensamenti.
Il Pnrr è stato costruito dal basso, utilizzando progetti di investimento delle Amministrazioni già in gran parte sviluppati in passato e poi accorpandoli nelle 6 missioni (digitalizzazione, transizione verde, trasporti sostenibili, istruzione e ricerca, inclusione e salute). Il meccanismo manca di una visione unitaria di natura strategica. Gli investimenti pubblici vengono valutati non in funzione della loro efficacia, ma semplicemente per il fatto che vengono realizzati.
Imperversa poi la polemica sulla semplificazione delle procedure che avrebbe lasciato spazio al subappalto irregolare. È in parte una posizione pregiudiziale e spesso capziosa, ma in genere è mancato il rafforzamento dei controlli nella fase dell’esercizio. Insomma, anche il piano ha bisogno di un bel tagliando, ma il Governo pensa di cavarsela con un rinvio.
Le elezioni europee s’avvicinano, però tre mesi possono essere tanti di fronte all’incalzare di vecchie e nuove difficoltà economiche. L’Ilva, ITA Airways (l’accordo con Lufthansa è appeso al filo dell’antitrust europeo), Stellantis e l’intera filiera dell’auto scossa non solo dal cambiamento strutturale, ma da serie difficoltà strutturali, non sappiamo che ne sarà di Tim e della rete internet, e tutti i tavoli sui quali al ministero del made in Italy (ex Sviluppo, ex Industria, ma sempre lo stesso) si accumulano i grattacapi.
Quanto potremo andare avanti con rinvii e scorciatoie? Nel Def ci sono i numeri già forniti nell’autunno scorso, tranne il Pil che dovrebbe crescere di un punto percentuale anziché 1,2%. Il ministro sostiene che verrà confermato il taglio il cuneo fiscale come pure la riduzione dell’Irpef a tre aliquote. Solo per questo ci vorranno venti miliardi di euro. Il deficit oggi supera il 7% del Pil, il Governo ha confermato che dovrebbe scendere al 4,3%. Si tratta di trovare circa 60 miliardi più i 20 delle promesse fiscali. È impossibile e l’Italia che finirà sotto procedura d’infrazione aprirà una trattativa per concordare un rinvio (ancora la parola magica), o meglio un rientro a rate di qui al 2027.
Il percorso, però, non si fermerà al 4%, ma scenderà di poco sotto il 3% secondo il Patto di stabilità. Facendo un banale conto della spesa vuol dire che bisognerà trovare circa 20 miliardi l’anno. Volendo confermare tutte le promesse, occorre tagliare la spesa non con le forbicine, ma con l’accetta. La modesta crescita reale e una riduzione di quella nominale, cioè al lordo dell’inflazione, non aiuterà a ridurre il debito in rapporto al Pil. Quello assoluto nessuno può fermarlo. Non chiamiamola austerità, ma si tratta comunque di un robusto tirar la cinghia.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI