Un’altra settimana travagliata per il mondo della giustizia. Mentre esplodeva lo scandalo degli accessi abusivi alle banche dati della Direzione nazionale antimafia, la corte d’appello di Brescia ha confermato la condanna a un anno e tre mesi nei confronti di Piercamillo Davigo, rispettato membro del pool Mani pulite di Milano, temuto giudice di Cassazione, capo di una corrente del sindacato delle toghe e infine membro del Consiglio superiore della magistratura che non avrebbe voluto lasciare neppure da pensionato.



Fin troppo note anche ai lettori più distratti, ciò che forse è stato meno esplorato sono le connessioni fra le due vicende che ci restituiscono, spiace dirlo ancora una volta, un’Italia che affoga nella melma dei dossier, dei ricatti, degli scoop eterni, facendo sorgere più di qualche preoccupazione per la disinvoltura con cui divise e toghe maneggiano la nostra vita. Entrambe le vicende hanno infatti a che fare con la gestione di notizie riservate, notizie e dati di cui dispone legittimamente chi è investito del compito di far rispettare le leggi, perseguendo chi non le viola.



Il tema è quindi delicato e rispetto ad esso va subito sgombrato il campo da ogni equivoco: non può e non deve essere messa in alcun modo in discussione la legittimità degli strumenti investigativi e delle strutture cui essi sono affidati. Con l’intelligenza e la lucidità che da sempre lo contraddistingue, ben ha fatto il procuratore nazionale Giovanni Melillo a precipitarsi a riferire in Commissione antimafia allo scopo di lanciare un messaggio tranquillizzante all’opinione pubblica: la stalla è stata chiusa, sebbene molte decine di buoi siano già scappati e stiano scorrazzando liberi.



Le falle macroscopiche emerse nel sistema della sicurezza informatica della DNA fa emergere interrogativi che speriamo riusciranno a trovare risposta nelle prossime settimane, sia in relazione alla probabile esistenza di un mercato parallelo di informazioni riservate, sia quella circa l’occulta presenza di un’unica regia. Come precisato dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone, gli accessi abusivi sin qui riscontrati sono “mostruosi”: 4.124 SOS (segnalazioni di operazioni sospette, ndr), aventi ad oggetto 1.531 persone fisiche e 74 persone giuridiche, oltre a 1.123 persone verificate sulla piattaforma che contiene le informazioni tributarie; infine 1.947 ricerche sulla banca dati SDI (Sistema di indagine). Oltre 10mila accessi, ma il numero è destinato a crescere in modo significativo, riferisce Cantone. Preoccupa che, si badi, solo poche decine avrebbero riguardato le soffiate fatte ad alcuni giornalisti. Spontaneo quindi chiedersi che fine abbiamo fatto ovvero come siano state utilizzate tutte le altre informazioni – ripetiamo, migliaia – recuperate dal luogotenente della Guardia di finanza, allo stato il principale indagato dell’inchiesta.

Altro aspetto di interesse: non è ancora chiaro, e la circostanza non è secondaria, se fossero i giornalisti a contattare il finanziare ovvero se fosse questi, per fini oscuri, a distillare informazioni ai giornalisti, fungendo da gola profonda. In 25 fra i capi di imputazione provvisoria, si ipotizza che l’ufficiale di Polizia giudiziaria in servizio presso la Procura nazionale antimafia sia stato esecutore materiale degli accessi abusivi per conto dei giornalisti richiedenti le informazioni stesse, mentre per tutti gli altri episodi sin qui contestati la procura ipotizza che il finanziare sarebbe esecutore materiale degli accessi abusivi mentre i giornalisti risulterebbero come meri interessati a ricevere le informazioni. L’aver ipotizzato due diverse dinamiche fa immaginare che i pm abbiano solo in poche occasioni le prove sui contatti fra giornalisti e il finanziere precedenti gli accessi abusivi, mentre in tutte le altre occasioni i giornalisti sarebbero stati il terminale finale di quell’illecito, con ragioni ancora tutte da chiarire.

Infine, risulta francamente preoccupante che non siano emersi profili di anomalia sui conti correnti del finanziare indagato. Sarebbe stato più rassicurante verificare che egli abbia agito da spacciatore di notizie riservate, magari con un tariffario ben determinato. Invece, che non sia stato trovato alcun elemento che faccia pensare a una finalità economica solleva pertanto ancor maggiore inquietudine.

Quello che sta emergendo sulla fuoriuscita di informazioni riservate dall’interno di un luogo “sacro” come la Direzione nazionale antimafia, come si diceva, non è poi così distante dalle vicende forse solo in apparenza più piccole, fatte di beghe, ripicche, vendette e tanta disinvoltura in cui è finito invischiato Davigo.

Non meno stravagante e degna di una trama alla Le Carré si presentala vicenda della loggia Ungheria in cui Davigo inciampa, probabilmente mosso dall’astio nutrito nei riguardi del suo collega, ex amico ed ex cofondatore di una corrente sindacale, Sebastiano Ardita. Un pm di Milano, Paolo Storari, volendosi ribellare ai suoi superiori, il procuratore capo e l’aggiunto, a suo parere colposamente passivi in relazione alle dichiarazioni dell’avvocato Amara, legale esterno dell’ENI, sull’esistenza di una loggia a cui aderivano personaggi di spicco (fra cui il citato Ardita), e ciò in considerazione della presunta volontà di voler tenere sotto spirito un testimone prezioso per l’accusa nel processo nei confronti dei dirigenti ENI che era in quei giorni in via di trattazione, senza così correre il rischio di minarne la credibilità, si rivolge a Davigo lamentando l’inerzia investigativa, chiedendo consiglio su come procedere per superare lo stallo. Davigo, da par suo, letti i verbali, verificata l’ipotizzata partecipazione del suo ex sodale Ardita alla loggia, faceva partecipe dei verbali coperti da segreto investigativo il presidente della bicamerale antimafia allo scopo di far emergere in qualche modo il presunto scandalo. Per inciso, il processo a carico dei vertici dell’ENI si chiuderà con una assoluzione e le accuse di Amara verranno archiviate palesandosi del tutto inventate.

La vicenda di Davigo e quella degli accessi abusivi sono accomunate dalla circostanza di evocare la percezione di un certo andazzo, in cui la supponenza di chi ricopre ruoli di potere si mischia a una disinvoltura quasi farsesca. Ci piacerebbe sentirci tranquillizzati, come ha apprezzabilmente cercato di fare il procuratore nazionale antimafia. Prevale invece la convinzione che ci troviamo di fronte a un andazzo generalizzato che da Palamara in poi trascina il sistema giustizia in un gorgo che taluni, cocciutamente, continuano a far finta di non vedere.

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