La quasi corale soddisfazione per la designazione di Raffaele Fitto a Vicepresidente esecutivo della Commissione europea – con delega alle politiche di coesione, alle riforme e in condivisione con Dombrovskis al Pnrr, e con il compito di coordinare le funzioni di altri Commissari che riporteranno a lui – ha reso evidente la stima di cui gode l’autorevole uomo politico pugliese, figlio come tutti sanno di un altrettanto autorevole Presidente della Regione Puglia, tragicamente scomparso nell’agosto del 1988 e molto stimato anche dai suoi avversari.
Fitto, è appena il caso di ribadirlo, rappresenta il nostro Paese, non il partito italiano (FdI) ed europeo (Ecr) di appartenenza e all’interno della Commissione – pur esercitando le deleghe conferitegli che non sono affatto irrilevanti – sarà tuttavia chiamato a concorrere con tutti gli altri Commissari alla definizione e al perseguimento delle politiche che saranno decise nell’ambito del governo comunitario. La von der Leyen è stata molto chiara al riguardo: al di là della gestione delle materie e delle risorse assegnate ai singoli – peraltro, come si è visto in alcuni casi, molto spacchettate – sarà soprattutto “il concerto” dei vari Commissari a portare innanzi nella Commissione le politiche che vi verranno decise.
Ora, si guarda alle audizioni presso le Commissioni del Parlamento di Bruxelles nelle quali i designati dovranno dimostrare approfondita conoscenza dei dossier loro assegnati per le deleghe ricevute, e dove però preliminarmente saranno sottoposti a un “esame di europeismo”, ovvero di piena condivisione dei principi ideali e giuridici che regolano la convivenza di 27 Stati nell’Ue e ne informano i Trattati istitutivi.
Ora, se è giusto che questo “esame di europeismo” sia compiuto – ricordando sempre che la Commissione è chiamata a governare insieme al Parlamento e al Consiglio dei Capi di Stato e di Governo una comunità di Stati e di popoli che hanno scelto di aderirvi, partecipando pro quota al suo bilancio – vi sarebbe da intendersi poi (ad avviso di chi scrive) sulla necessaria distinzione fra la fedeltà ai principi sanciti nei Trattati comunitari e l’approvazione o meno delle politiche comunitarie perseguite dalla Commissione, discusse e votate nel Parlamento e poi portate al Consiglio dei Capi di Stato e di Governo.
E sotto questo profilo non ci pare persuasiva la posizione sinora espressa da alcuni (ma non da tutti) i parlamentari europei del Pd che per votargli a favore aspettano di saggiare la coerenza europeista del Commissario Fitto: il nodo vero, su cui invece dovranno misurarsi tutti gli schieramenti politici, saranno le grandi scelte programmatiche da compiersi nei prossimi anni che non potranno essere assunte astrattamente richiamandosi solo ai principi comunitari, ma che dovranno tener conto anche, e direi soprattutto, dei profondi risvolti economici, sociali e vorremmo aggiungere esistenziali per la popolazione europea derivanti dalle scelte che andranno a compiersi.
Saranno necessari, è appena il caso di evidenziarlo, accurati approfondimenti sulle singole materie e accorte mediazioni per le decisioni che si dovranno assumere: mediazioni ineludibili in cui i (sacri) principi dei Trattati non potranno fungere da dogmi da rispettarsi con cieca obbedienza, ma dovranno misurarsi il più possibile con le profonde dinamiche socioeconomiche già in corso nell’Europa comunitaria e con i prevedibili effetti che talune decisioni comunitarie potranno determinare.
Vogliamo qualche esempio di decisioni già assunte in un recente passato che si stanno rivelando profondamente sbagliate non nelle loro finalità pienamente condivisibili, ma nei percorsi operativi decisi per perseguirle? Si consideri il tanto discusso Green Deal che anche il Presidente della Confindustria Orsini ha detto nei giorni scorsi che bisogna cambiare, riscontrando la piena condivisione della Meloni, ma anche aggiungiamo noi di tanti imprenditori, sindacalisti, economisti e parlamentari europei non solo italiani ma anche di altri numerosi Paesi dell’Unione.
Fermo restando che bisognerebbe (ma nel mondo e non solo in Europa) ridurre le emissioni nocive e in particolare quelle della CO2, stabilire che dal 2035 non potranno più essere vendute nei Paesi dell’Ue auto con motori endotermici a benzina e diesel ma solo quelle con propulsioni elettriche, si sta rivelando già da tempo profondamente sbagliato – crollano fra l’altro proprio le vendite di auto elettriche – con il rischio drammaticamente concreto che venga distrutta capacità produttiva di grandi industrie automobilistiche (vedi in primis la Volkswagen), con conseguenze occupazionali catastrofiche, e gravi rischi politici capaci di consegnare nel 2025 la Germania al governo dell’AfD.
Bisogna puntare invece sulla neutralità tecnologica, su biocarburanti e carburanti sintetici, su common rail di ultima generazione come quelli che si producono a Bari alla TD Bosch, su auto ibride, mentre per la CO2 residua emessa dal parco veicolare europeo (da modernizzare) si dovrà puntare alla sua cattura con le tecnologie già oggi esistenti: insomma, decarbonizzazione non può e non deve significare in alcun modo deindustrializzazione, con la perdita di occupazione per centinaia di migliaia di operai, tecnici, quadri e dirigenti di fabbriche automobilistiche: ed è auspicabile in proposito che i partiti socialisti e socialdemocratici europei non dimentichino e non perdano le loro storiche radici nel mondo del lavoro di fabbrica.
Su questo punto specifico allora l’intero organismo dirigente del Pd (e non solo la Schlein) cosa dice e cosa proporrebbe con risoluzioni ufficiali, e non con slogan da comizi per il campo largo? Il prof. Prodi già da lungo tempo ha denunciato i rischi drammatici di una motorizzazione solo full electric. Bene, allora alla luce di tutto quanto abbiamo appena sottolineato, che significherebbe fare l’esame di europeismo al Commissario Fitto da parte dei parlamentari italiani del Gruppo S&D? Che sacro principio europeistico sarebbe quello che porterebbe alla distruzione di migliaia di posti di lavoro nelle fabbriche automobilistiche europee e italiane? E poi qualcuno potrebbe forse illudersi di non vedere migliaia di tute blu in corteo a Bruxelles con i loro imprenditori sotto la sede di palazzo Berlaymont? Lo hanno già fatto i contadini europei la scorsa primavera con i loro trattori, ottenendo risultati significativi, e perché allora non potrebbero farlo migliaia di operai, tecnici e quadri di fabbrica guidati dalla Confederazione dei sindacati europei e insieme alla Confindustria europea?
Ancora, consideriamo le politiche migratorie: a che punto siamo oggi nella loro definizione e gestione a livello comunitario? Quali e quanti sacri principi dei Trattati dell’Ue si stanno rispettando nella loro gestione? E l’Italia, ma anche la Grecia e la Spagna non sono lasciate da sole nell’affrontare la crescente drammaticità dei flussi migratori incontrollati? Ma perché l’Unione europea non lancia essa stessa un grande Piano Mattei – o come altrimenti lo si volesse chiamare – per portare sviluppo, occupazione e consolidamenti sociodemografici in tanti Paesi africani, integrandone sul medio e lungo periodo le varie economie con quelle dell’intera Ue?
E last but non least consideriamo il Rapporto Draghi da poco illustrato al Parlamento di Bruxelles. Ma siamo proprio sicuri che tutti i Paesi ne raccolgano le forti sollecitazioni a politiche economiche ambiziose che rendano l’Ue autonoma e capace di competere nei prossimi decenni con Usa e Cina? I Paesi più piccoli dell’Europa – che non hanno mai avuto, o non hanno ancora basi manifatturiere solide – hanno gli stessi interessi industriali di Germania, Francia, Italia, Spagna e Polonia? E se invece molti di essi si fossero già acconciati all’idea di essere colonizzati da capitali statunitensi e cinesi che comunque già oggi garantiscono livelli di occupazione apprezzabili e di un sia pur relativo benessere, almeno per certi settori della popolazione?
Allora, se tutto quanto siamo venuti evidenziando nelle righe precedenti ha un qualche fondamento, prepariamoci tutti insieme – forze politiche, sindacali, stakeholder, associazioni di categoria, docenti universitari, opinion maker, ecc. – a rigorose valutazioni sul futuro dell’Ue e delle sue future generazioni, senza dogmatismi, senza posizioni pregiudiziali, e senza arrogarci il ruolo di gestori di cattedre di dogmatica europeista. L’Ue – che tutti vogliamo difendere come una grande conquista di civiltà – avrà bisogno di profonda saggezza, di equilibrio, di duttilità, e di grande umanità, come la vollero i grandi padri fondatori all’indomani della Seconda guerra mondiale.
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