Il conflitto mediorientale coinvolge così tanti attori diversi che tracciarne anche solo una mappa con le relative dinamiche e interconnessioni è qualcosa di arduo. Anche l’ausilio di immagini e metafore risulta a rischio di iper-semplificazione. Quello che è certo è che al centro vi è il nodo “Israele” da cui, a sua volta, si innestano tutti gli altri raggi, a cominciare dalla questione palestinese, che dà vita e legittimità a tutte le altre dinamiche.



Il fatto è che lo Stato di Israele è il precipitato della storia e dei fallimenti dell’Europa, o meglio del Mediterraneo, dal colonialismo alla decolonizzazione, al nasserismo e la sua dottrina panaraba, alla rivoluzione iraniana, fino alla fallimentare politica di “esportazione della democrazia” a seguito dell’11 settembre 2001 e della illusorie “primavere arabe”.



Così il conflitto israelo-palestinese si è trasformato in qualcosa di diverso senza però perdere i suoi connotati iniziali, ogni volta un nuovo tema e l’aggiungersi di nuovi attori hanno apportato dinamiche e significati nuovi alla questione originaria, rendendo la matassa sempre più ingarbugliata. Con gli attori coinvolti incapaci di vincere o perdere in modo definitivo, facendo sognare ad ogni belligerante soluzioni radicali rimandate in un ipotetico futuro.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Lo scontro tra Israele e palestinesi si è trasformato in un conflitto esistenziale, in una lotta assoluta del bene contro il male, dove non c’è spazio per la politica né per la diplomazia.



L’attacco del 7 ottobre sferrato da Hamas ha convinto Israele su quattro punti: 1) i suoi confini non sono sicuri; 2) i suoi cittadini sono in costante pericolo; 3) il meccanismo di deterrenza non ha funzionato; 4) i suoi nemici sono ispirati da un’ideologia di annientamento totale.

La conclusione è agevole: non c’è nessuno spazio per la politica, per la mediazione, per il compromesso. E attenzione, anche la deterrenza da sola non basta più, perché il nemico è diventato assoluto. E adesso, contro i nemici di Israele, prima di tutto Hamas e Hezbollah, ma a seguire – se non capiscono – il Libano, la Siria e lo Yemen degli Houthi, la guerra può finire solo con una loro distruzione o resa. Anche gli Alleati nella seconda guerra mondiale adoperarono la stessa logica contro la Germania nazista e il Giappone, costretti ad una resa totale e senza condizioni.

In questo contesto è ovvio che Netanyahu non proponga nessun piano futuro per la Palestina, perché semplicemente a queste condizioni non può essercene nessuno. Se questa è la cornice, per i palestinesi il destino è segnato, o profughi o assimilati; mentre il massacro perpetrato da Hamas ha avuto l’effetto di rilanciare il sogno degli estremisti israeliani di un Grande Israele.

Per Tel Aviv, non solo per Netanyahu, adesso non esistono linee rosse invalicabili. Se a poco servono gli avvertimenti di Washington, figuriamoci la missione Unifil dell’Onu, con le Nazioni Unite accusate esplicitamente e senza misure di fare il gioco dei nemici di Israele, che è arrivata a dichiarare il segretario generale Guterres “persona non grata”.

Contro questa condotta scelta da Tel Aviv sono state sollevate due obiezioni. La prima, che porta a successi militari tattici immediati ma manca di visione strategica; e comunque – ecco la seconda obiezione – che la sua risposta sia spropositata. Credo che le accuse abbiano una loro validità morale e politica, ma siano incomplete. La domanda centrale è se le scelte del governo israeliano possano avere successo. Cioè se il tipo di “vittoria” immaginato sia realizzabile e duraturo, capace di portare ad una pace che resista nel corso del tempo come è stata la vittoria degli alleati nella seconda guerra mondiale, pur ottenuta al prezzo di due bombe atomiche.

La prima obiezione sostanziale a questa visione è che l’attuale conflitto non è una guerra assoluta perché non lo può essere strutturalmente. Questo è stato da sempre l’errore fondante e fondamentale dei Paesi arabi nel ’48, poi dell’Olp, e ancora di Hamas. Non si è mai visto nella storia una lotta di liberazione di un popolo, nel caso di quello palestinese, che voglia la distruzione completa dell’oppressore. Anche perché questi conflitti sono, rispetto alla forza, asimmetrici, e lo scopo degli oppressi è di costringere politicamente il nemico più forte militarmente a cedere attraverso una insostenibile pressione politica. Dall’Indocina all’Algeria, al Vietnam, questa è la storia delle guerre di liberazione. Né la Francia né tantomeno gli Stati Uniti hanno perso sul piano militare, né in Indocina, né in Algeria, né in Vietnam. La sconfitta è stata solo politica. Qui sta il fallimento completo delle leadership palestinesi, che invece di disarmare Israele, lo hanno scatenato, lo hanno armato, perché hanno tolto tutti i limiti politici, morali, diplomatici all’uso della forza. A cui né i palestinesi, né Hezbollah possono rispondere con eguale potenza di fuoco. A riprova, si raffronti il numero di vittime militari e civili dei vari contendenti sui vari teatri. A riprova, i differenti risultati, anche se discutibili, della prima Intifada che portò agli accordi di Oslo.

Ma questa guerra non è una guerra totale nemmeno per Israele per altri e speculari motivi. I palestinesi non possono essere buttati fuori dalla Palestina. Nessun Stato arabo li vuole, né la Giordania, né l’Egitto, né il Libano. Contro Tel Aviv vi sono la demografia e l’odio che una simile repressione induce nelle generazioni future dei sopravvissuti di Gaza, che porteranno per decenni il ricordo e i lutti dei bombardamenti in quella specie di “acquario” che è la Striscia. Nessuno può dire quale forma politica assumerà tale rancore, se li indurrà in qualche ripensamento politico o invece solo verso un incancrenimento. Israele inoltre non può protrarre ancora a lungo una guerra che dura da più di un anno – la più lunga mai combattuta – su più fronti: occupare Gaza, tenere in un pugno di ferro la Cisgiordania, combattere contro Hezbollah, tenere a bada Teheran.

Troppi poi gli attori coinvolti e le dinamiche conseguenti. Si pensi appunto all’Iran. Se Israele riduce di parecchio il peso degli alleati proxy degli Ayatollah, costringe l’Iran a riporre tutta la sua capacità di deterrenza sulla costruzione dell’atomica, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Oppure, se Israele colpisce l’Iran grazie alla neutralità/amicizia dei regimi sunniti, Arabia in testa, chi vieta agli Houthi, agli sciiti iracheni e così via di colpire i nemici sunniti del Golfo così vicini anche agli Stati Uniti? Certo, sul campo c’è anche lo scenario migliore per lo Stato ebraico, ovvero che uno scontro anche a distanza con Israele conduca il regime teocratico al collasso, come avvenne con l’Argentina dei generali a causa della guerra delle Maldive.

E poi, sullo sfondo, silenti ma ben attive nello scacchiere, ci sono le manovre di Russia e Cina, pronte a capitalizzare ogni nuova difficoltà degli Stati Uniti e dei loro alleati, compresa la rottura della foglia di fico delle Nazioni Unite, che comunque qualcosa era. Domanda retorica: che cosa sarebbe successo se a sparare sui caschi blu dell’Onu fosse stata la Russia o la Cina?

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