La tregua non è affatto solida, ma la gente vuole solo tornare a casa propria, almeno per verificare se è rimasto qualcosa in piedi. Così, le strade del Libano, nelle ore successive al cessate il fuoco temporaneo, sono intasate dalle auto degli sfollati che tornano nei loro paesi. Un segno di speranza, della voglia di tornare a vivere, osserva Marco Perini, regional manager di AVSI per il Medio Oriente, che si scontra con il fatto che nei luoghi di origine degli sfollati non c’è più niente. Il Libano deve essere ricostruito e ha bisogno di aiuto. Il sostegno può e deve venire dall’Occidente, che finora non si era particolarmente interessato alle sofferenze del popolo libanese.



Su tutto, però, rimane il rischio di nuovi focolai di guerra, magari in Siria, dove gruppi rivali di Hezbollah, della galassia di cui fanno parte Al Qaeda e Isis, sembrano voler conquistare Aleppo proprio per creare problemi ai libanesi filo-iraniani. Un’operazione che, purtroppo, potrebbe non dispiacere a USA e Israele per mettere in difficoltà anche l’Iran.



Quanto è precario il cessate il fuoco in Libano?

La tregua è di una fragilità estrema, e il rischio che venga violata è altissimo, per molte ragioni: in questo momento le forze di terra israeliane sono ancora sul territorio libanese e, nonostante sia gli israeliani sia l’esercito regolare abbiano invitato le persone a non rientrare subito nei luoghi dove si trovano le loro abitazioni, o quello che ne rimane, in moltissimi stanno rientrando. Il rischio di tensioni, incomprensioni, provocazioni, da una parte e dall’altra, è altissimo. Non c’è dubbio che, dopo la giornata orribile di mercoledì, giovedì mattina, dopo 24 ore di bombardamenti continui su Beirut, ci siamo svegliati alle sei e sembrava di essere in un altro mondo: la reazione della popolazione è di grande sollievo, dopo due mesi pesantissimi per chi scappava dalle bombe e per chi accoglieva. Ognuno di noi, però, si chiede se la tregua durerà e cosa potrà succedere dopo.



Il Paese intanto è segnato da una sorta di controesodo dei libanesi che vogliono tornare nelle loro case. Cosa può dirci?

È Un fenomeno incredibile, che ci dice tantissimo di quello che sta succedendo. L’80% del milione e mezzo di persone scappate dalle bombe si è riversato immediatamente nelle strade per dirigersi verso casa: le strade che portano a sud sono intasate. Certo, bisogna vedere quale casa ritroveranno: molte sono state distrutte o danneggiate, ci sono 38 villaggi che sono stati rasi al suolo. Alcuni, anche al sud, vivono sotto le tende, perché Israele sta occupando il territorio libanese. Sicuramente le scuole sono chiuse e i negozi non ci sono. È la vita che ricomincia, con il grande interrogativo relativo alla possibilità che la tregua tenga o meno.

Il primo giorno di tregua, d’altra parte, non è stato proprio esente dagli spari: una conferma del rischio che si corre?

Un missile ha bombardato una presunta postazione di Hezbollah; droni e aerei israeliani stanno sorvolando il Paese. Ci sono scontri a fuoco fra la popolazione che rientra (non so dire se appartenenti a Hezbollah) e l’IDF. C’è euforia, ma anche grande preoccupazione per la fragilità della situazione. L’esercito libanese sta dispiegando le sue forze, ma sappiamo che non ha mezzi, anche economici, per far fronte ai suoi compiti. Non ha soldi per la benzina e la logistica, per controllare il confine sotto il fiume Litani. Escludendo i belligeranti, la scommessa oggi è quanto il resto del mondo, che se n’è fregato della guerra, sia ora interessato alla pace.

Quale ruolo può avere l’Occidente, finora sostanzialmente disinteressato al conflitto, tranne gli Usa verso Israele, che ha continuato a rifornire di armi?

Bisogna permettere all’esercito libanese di tenere fede ai compiti che la tregua gli assegna, altrimenti tutto rimarrà sulla carta. Quindi occorrerà sostenere la ricostruzione. Se l’Occidente non metterà i soldi necessari, sarà una ricostruzione fatta da altri: così, le stesse dinamiche che hanno causato la guerra attuale rischierebbero di riproporsi dal punto di vista militare. Da un punto di vista sociale, infatti, Hezbollah non sarà mai smantellato: elegge deputati e ministri, è votato dal 30% della popolazione, ha case di riposo, scuole, università, ospedali. È espressione del popolo, è un partito politico, un soggetto centrale della vita libanese di cui non possiamo non tenere conto. Chi dice che Hezbollah non esisterà più dice una bugia.

La soluzione militare è destinata a fallire? Occorre comunque una soluzione politica?

È fondamentale che si elegga il Presidente della Repubblica, che si insedi un governo con pieni poteri, perché quello di Najib Mikati è dimissionario, e che il processo di ricostruzione proceda parallelamente al processo di unità politico-sociale del Paese, che è il bello del Libano, mosaico di complessità differenti.

Quali richieste vi arrivano dalla gente in questo momento?

Dal punto di vista umanitario, il loro bisogno è tornato quello del primo giorno di fuga: stanno andando in posti dove non c’è più niente, hanno bisogno di tutto. Ci sono centinaia di migliaia di persone dirette verso luoghi in cui il sistema di distribuzione dell’acqua non c’è più, perché è stato bombardato, l’elettricità nove volte su dieci non c’è, e non ci sono neanche negozi per comprare il pane. Le scuole non funzionano, prima perché i rifugiati avevano occupato 900 istituti, ora perché la gente torna in posti dove sono state distrutte e restano comunque chiuse. Per questo, dobbiamo assolutamente continuare i corsi scolastici online che tenevamo nei rifugi temporanei. Ci sono anche altre variabili: non sappiamo quanto Israele abbia minato il territorio. Per quanto ci riguarda, invece, se prima dovevamo occuparci di 800 persone riunite in un solo punto, oggi quelle stesse persone sono sparse in luoghi differenti: ci stiamo attrezzando per raggiungerle.

Vista la precarietà della situazione, quali sono gli elementi da cui ripartire?

Dobbiamo sperare nel fatto che l’esercito libanese e il contingente di pace UNIFIL siano in grado di controllare il territorio al sud del Litani e quindi sperare che tutti i residenti possano tornare a casa. Dobbiamo sperare che il loro reinsediamento venga sostenuto: se il contadino non verrà aiutato a riprendere le sue coltivazioni non gli sarà tolta la rabbia. La speranza è il lavoro, la scuola, l’ospedale, il panettiere. Dall’altra parte speriamo anche che Israele sia sincero.

L’Occidente ha girato la testa da un’altra parte finora, anche se in questo momento ha dato il suo contributo per la tregua. Ora, però, ha un compito fondamentale nella ricostruzione.

Deve dare un contributo economico e diplomatico, politico. Per ricostruire è importantissimo il tema della fiducia. Il Libano, che ha dovuto affrontare la guerra, era già un Paese devastato dalla crisi economica; non ce la farà a riprendersi da solo, lo sanno tutti. Le buone parole della Meloni e di Macron ci fanno pensare che l’Occidente voglia riprendere un ruolo e, finalmente, che torni a guardare al Libano. Il Paese, però, deve aiutarsi da solo, nominando un Presidente della Repubblica e dandosi un governo.

Il pericolo che si torni alle operazioni militari comunque è concreto?

Il mio augurio è che in Libano ritorni la pace e che la gente del sud, come quella del nord di Israele, possa tornare a casa sua. Speriamo che non si aprano nuovi focolai, perché quello che sta succedendo ad Aleppo in queste ore è un altro campanello di allarme. I ribelli di al Nusra, Al Qaeda, Isis, soprattutto legati ad Hay’at Tahrir al-Sham, hanno invaso diversi chilometri quadrati di territorio siriano (dove Hezbollah ha un ruolo) e sarebbero a pochi chilometri da Aleppo, anzi, sarebbero arrivati nella periferia. La città, tra l’altro, sta cercando faticosamente di risollevarsi dal terremoto. L’autostrada Damasco-Aleppo è stata chiusa. Non vorrei che, per combattere dei terroristi o presunti tali, qualcuno pensi di usare altri terroristi.

(Paolo Rossetti)

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