Le bombe continuano a cadere sul Libano, distruggendo interi villaggi. Operazioni militari senza fine hanno causato una fiumana di sfollati, costretti a lasciare le loro case per trovare rifugio in altre zone del Paese. AVSI sta aiutando 13mila persone, con interventi che non riguardano solo i beni materiali. Anzi, spiega Marco Perini, regional manager di AVSI per il Medio Oriente, la priorità viene data ai bambini, cercando di farli giocare e socializzare, proprio per evitare che la durezza del conflitto faccia morire in loro la speranza nel futuro. Le bombe di Israele e la ricerca dei capi di Hezbollah per eliminarli, con il rischio di uccidere anche chi vive vicino a loro, creano diffidenza tra le diverse comunità presenti in Libano, da sempre crogiolo di fedi e culture diverse. Una situazione che, a lungo andare, potrebbe portare a un conflitto interno al Paese: un pericolo da scongiurare.



I bombardamenti continuano e Israele non sembra intenzionato a smettere. Con quale stato d’animo la gente sta affrontando questa drammatica situazione?

Dopo un anno di guerra nel sud e un mese in tutto il Libano, la gente non ne può davvero più. Una stanchezza che si manifesta in tanti modi. Ciò che mi preoccupa particolarmente, però, è il rischio di un conflitto interno, che venga minata la stessa ragion d’essere del Libano, un mosaico di differenze nel quale vivono insieme sciiti, sunniti, drusi, cristiani, palestinesi, siriani. Israele, oltre a bombardare tutte le sere, buttando giù case e palazzi e facendo vittime innocenti, cerca di colpire i capi di Hezbollah che sono sfollati. E quando ti trovi come vicino di casa uno sconosciuto che ha trovato rifugio, è normale avere paura. Una paura che può allargarsi e aprire la strada a un conflitto interconfessionale.



Il patriarca maronita Béchara Raï ha convocato nei giorni scorsi un vertice religioso cui hanno partecipato cristiani e musulmani: un segno che prima di tutto bisogna evitare le divisioni?

È una delle ragioni della presenza di AVSI, Ong cattolica che qui ha più di 100 operatori e che, attraverso il lavoro umanitario, supporta le persone che soffrono: dobbiamo creare ponti, permettere alle persone di incontrarsi, altrimenti diventa tutto bianco e nero, amico e nemico.

La tensione fra persone di diverse comunità è tangibile?

La vediamo nell’atteggiamento ostile di qualcuno, di chi ci chiede: “Perché aiutate quelli?”. D’altra parte, la situazione quotidiana è fatta di continui bombardamenti, al sud ci sono intere zone che non esistono più. A Kfarkila, un villaggio dove lavoravamo (e lavoriamo ancora con i bambini che ci abitavano e hanno potuto spostarsi) non ci sono più case: hanno raso al suolo un centro in cui risiedevano migliaia di persone. Anche se finisse la guerra, per loro ci vorrà tempo prima di tornare a una dimensione di normalità: ecco perché rabbia e odio sono sentimenti prevalenti. Israele bombarda in continuazione e indiscriminatamente, non per niente siamo a 2500 morti e 12mila feriti. Anche gli attacchi all’Unifil non sono solo una dimostrazione di prepotenza o della fine del diritto internazionale: si vogliono togliere di mezzo i testimoni di quello che sta succedendo. Se non ci fossero i soldati ONU, cosa avrebbero fatto i belligeranti più di quello che hanno fatto?



Come si articola la vostra presenza in Libano oggi?

Il nostro è aiuto umanitario puro: lavoriamo nei luoghi in cui le persone hanno trovato riparo, 114 scuole, 3 università, 125 rifugi. Ci occupiamo anche di chi ha trovato un appartamento in cui stare, ma non ha i soldi per il cibo, non ha materassi. I bambini sono spaventati: una delle nostre attività più importanti è proprio quella di impedire loro di diventare vecchi troppo presto. Li facciamo giocare, disegnare, danzare, anche per permettere loro di esprimere il trauma, in modo da aiutarli a superarlo. Vogliamo che si stacchino per un momento da questo purgatorio vivente.

Cosa soffrono di più i piccoli?

Vivono con persone che non conoscono, in scuole dove si dorme tutti insieme, senza spazi privati o un angolo per leggere un libro, dove vedono i loro genitori tristi e sofferenti. Farli giocare è indispensabile: a 5-6-7 anni hanno lasciato la loro casa verso una destinazione sconosciuta. Per questo il nostro lavoro non è solo scaricare camion, ma accompagnare, condividere, cercare dei momenti di serenità, perché la guerra ha spazzato via tutto. Aiutiamo 13mila persone, ma non ci preoccupiamo solo di fornire acqua, cibo, medicine, soldi.

Quali sistemazioni sono state trovate per gli sfollati?

La maggior parte vive nelle scuole, che quindi non funzionano più. Centinaia di migliaia di bambini non frequentano le lezioni perché gli istituti sono diventati dormitori. Alcuni sfollati vivono in altri edifici pubblici, i più fortunati in case, appartamentini, anche se di solito sono occupati da 20-30 persone. Chi non ha trovato altro vive per strada: ci sono chilometri di marciapiedi pieni di tende, con l’auto parcheggiata di fianco che fa da ripostiglio, una tenda come stanza da letto e la sala da pranzo sotto il cielo. Adesso ci sono 20 gradi, ma anche qui sta arrivando l’inverno, con il freddo e la pioggia. Per migliaia di persone sarà un grossissimo problema: lo è già oggi vivere senza acqua potabile e servizi igienici.

In quale zona del Libano siete più presenti?

Le piccole suore di Ivrea (le suore di Carità dell’Immacolata Concezione) lavorano sulla collina a nord di Beirut, hanno 40-50 famiglie alloggiate nei villaggi intorno al convento, cui portiamo aiuti materiali e che sosteniamo con il centro di ascolto psicologico e svolgendo attività per i loro bambini. Le zone in cui agiamo sono quelle dove la gente è scappata: Beirut, Monte Libano e una parte della Bekaa. Ma lavoriamo anche nelle zone di guerra: nel sud, a Marjayoun, ci sono 500 famiglie (quindi 2-3mila persone) che hanno deciso di non abbandonare il loro villaggio, nonostante i bombardamenti: due ragazze di AVSI sono rimaste con loro. Siamo a 5 chilometri dal confine con Israele. Lì abbiamo inviato aiuti scortati dall’esercito libanese.

In una situazione così drammatica c’è comunque solidarietà fra i libanesi?

C’è e va fatta conoscere, è l’antidoto allo scontro. Ci sono tantissime persone di appartenenze diverse che si aiutano tra loro, come la signora cristiana che cucina dieci volte la quantità di cibo che le occorre e dà da mangiare a chi ha perso tutto. Ci sono persone che hanno aperto le loro case ospitando chi ha bisogno. Ci sono tante esperienze molto belle: sono il sale del Libano.

Qual è la vostra priorità?

Il Libano sta soffrendo da ben prima della guerra, ma non si può perdere la speranza nel futuro. Prima di tutto il nostro lavoro è trasmettere sentimenti di amicizia, condivisione, aiutare persone che oggi vivono solo la rabbia, la tristezza e l’odio, aiutarle a fare in modo che non prevalgano. Si spera che i missili finiscano, che la diplomazia faccia il suo lavoro: non è pretendendo di ammazzare tutti gli uomini di Hezbollah o gli abitanti di Gaza perché sono filo-Hamas che si può risolvere qualcosa. Quando hai ucciso un padre e una madre, nel bambino crei un odio difficilissimo da superare. Mai una vittoria militare darà la pace.

La presenza di Hezbollah è palpabile sul territorio?

Non si può annientare perché non è solo un gruppo armato, è un partito che elegge deputati ed esprime ministri. Ha consenso sociale perché ha una rete di welfare grazie alla quale aiuta la popolazione delle zone in cui è presente. Considerare Hezbollah solo una parte belligerante è un errore. Ha le sue scuole, centri estivi, case di riposo, cliniche. Come c’è l’ospedale cattolico, c’è anche l’ospedale di Hezbollah.

(Paolo Rossetti)

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