BEIRUT – Da qualche mese era entrata nel gergo delle Ong la definizione della situazione libanese come “la tripla crisi”: prima la crisi siriana, cominciata 9 (incredibili) anni fa, che ha fatto arrivare in un paese di 4 milioni di abitanti 1,5 milioni di rifugiati siriani; poi la crisi finanziaria, la peggiore degli ultimi trent’anni, che ha messo in ginocchio il Paese, e infine la crisi sanitaria, da quando il Covid-19 è arrivato qui e ha imposto uno stretto lockdown, che ha ulteriormente indebolito la sopravvivenza economica dei singoli cittadini e del settore privato. E francamente ci si chiedeva, tra lo scherzoso e il preoccupato: “cosa deve ancora succedere?”. Ce lo siamo chiesto mille volte, e si scherzava sulle cavallette che, questa volta, non sono arrivate dalla penisola del Golfo perché in Libano a fine marzo faceva ancora abbastanza freddo.
E invece, eccoci qui a dover trovare le forze per organizzare una nuova azione a supporto della popolazione libanese, messa in ginocchio dall’esplosione di mercoledì, che ha sventrato palazzi e appartamenti, negozi e uffici nel cuore di Beirut e dei quartieri popolari adiacenti.
Le immagini sono terrificanti, la commozione è molta, e la rabbia è tanta. Regna ancora lo choc, devo dire, perché non si può credere ad un incidente del genere. Che ha mandato in tilt alcuni dei migliori ospedali di Beirut, che anziché accogliere le centinaia di feriti, hanno dovuto evacuare i loro malati perché gli ospedali stessi erano sventrati, senza corrente, incapaci di curare. Il porto, cuore pulsante della vita economica libanese, unica via di accesso per tutti i beni che, a fatica, si riuscivano ancora a far arrivare dall’estero, in un paese cosi dipendente dalle importazioni di ogni tipo, è stato completamente annientato. I containers accartocciati come lattine vuote. Impressionanti i silos del grano, in cemento armato, che hanno lasciato colare a mare tutto il loro prezioso contenuto. Si ricomprerà, il grano, arriveranno gli aiuti, è vero, ma la paura del razionamento del pane e della farina, in aree dove le rivolte del pane fanno ripensare a situazioni peggiori, diventa la goccia che fa traboccare il vaso.
Il Libano stava già attraversando mesi molto difficili e tesi, in cui la moneta libanese ha perso l’80% del suo valore contro il dollaro, mandando in fumo gli stipendi di tutti, da quello del professore a quello del cameriere; in cui fino a ieri si stava parlando del 50% della popolazione che avrebbe raggiunto la soglia di povertà, e in cui chi voleva esasperare gli animi teorizzava una possibile carestia. In cui la corruzione sembra senza cura e nega tutti i servizi meritati ad un Paese che vanta sviluppo, conoscenze, potenzialità.
Ecco, adesso, a tutto questo, bisogna aggiungere che ci sono centinaia di persone sotto choc, più di 5mila feriti, e una stima di 300mila persone che sono rimaste senza un tetto. E come faranno a ricostruirla, la casa, pensando di dover acquistare mobili, porte e finestre – da pagare in dollari – che devono arrivare al porto? È la domanda che si fanno in tanti, e che lascia tristi e a braccia abbassate.
Intanto, le macerie cominciano ad essere rimosse, tantissimi i volontari e i giovani che si stanno prodigando ad aiutare, laddove è permesso entrare; i primi aiuti di materiale sanitario stanno arrivando dai paesi vicini, per supportare il tracollo del settore sanitario, già provato dal Covid. Le agenzie delle Nazioni Unite e le Ong partners si preparano ad una seconda macchina degli aiuti (la prima è quella messa in atto per rispondere alla pandemia), tentando un difficile ma necessario coordinamento, per essere efficaci nell’aiuto. Pacchi alimentari, vestiti, materiale igienico saranno presto distribuiti; e dovranno certamente essere accompagnati da molto supporto psicosociale, perché lo choc, lo spettro di un attacco, la paura e le perdite sono davvero tanto tanto grandi.
Ma soprattutto bisogna ricostruire, rimettere tutto in piedi, e trovare nuove vie per sopravvivere, sbarcare il lunario, risollevarsi. Questa è la resilienza libanese, che non smette di iniettare energia laddove proprio non ti immagineresti che ci sia ancora forza e voglia di restare, di ricominciare, di rischiare ancora. Questo, ancora una volta, è il Libano che amiamo.
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N.B. Avsi ha predisposto una campagna di raccolta fondi, #lovebeirut, accessibile dal sito di Avsi. Le donazioni saranno rivolte a interventi durevoli di riabilitazioni di porte, finestre, impianti elettrici ed idraulici delle famiglie libanesi povere colpite dal disastro, il tutto realizzato da team di piccoli imprenditori e artigiani libanesi.