Il metaverso è un ambiente digitale tridimensionale, completamente immersivo in cui è possibile accedere mediante internet e muoversi grazie a un avatar: si tratta di un universo che esiste in concomitanza con quello fisico, multiforme e non riducibile a sovrapposizioni riduttive con fenomenologie passate. Nel metaverso gli avatar realizzano atti virtuali corrispondenti alle normali occupazioni umane e tra questi anche attività che nelle loro manifestazioni fenomeniche rassomigliano al lavoro. Il diritto del lavoro si trova quindi innanzi ad una trasformazione con nuove sfide riguardanti la gestione del capitale umano, a partire dalla ridefinizione dei diritti e dei ruoli dei singoli.
Partendo dal significato letterale, il termine deriva dall’unione del prefisso greco meta (oltre) e dal suffisso verse (abbreviazione di “universo”) e fa riferimento a universi, generati o ospitati su computer, che si collocano oltre il mondo fisico. Ne consegue che un lavoratore-avatar potrà avere dei colleghi-avatar, rendere la prestazione lavorativa nel metaverso, effettuare riunioni in modalità tridimensionale, fare attività di vendita e assistenza clienti, simulazioni di lavorazioni e processi produttivi. È evidente che, per approcciare correttamente il tema, occorre partire dall’ineludibile implicazione esistenziale della persona che lavora dietro le sembianze di un avatar, perché diversamente opinando bisognerebbe costruire un diritto del lavoro dell’avatar, riconoscendo ad esso una soggettività giuridica.
Nel tentativo di catalogare la prestazione lavorativa connessa al metaverso occorre distinguere tra lavoro al metaverso e lavoro nel metaverso. In effetti, un conto è lavorare al metaverso, cioè progettare, graficamente o tecnicamente, lo spazio del metaverso; un conto è lavorare nel metaverso, cioè rendere la propria prestazione lavorativa – o parte di essa – immergendosi nello spazio virtuale. La prima tipologia non appare foriera di particolari complessità applicative perchè possono trovare spazio le coordinate giuridiche già note trattandosi di un lavoratore, subordinato o autonomo che sia, al quale è affidato, nel mondo reale, lo sviluppo di una tecnologia. La seconda tipologia, il lavoro nel metaverso, necessita, invece, di un approfondimento poiché apre scenari del tutto inesplorati se si considera che già oggi la videoconferenza permette di valicare le barriere fisiche tra Paesi facilitando gli “incontri” sulle vie del digitale e che, verosimilmente, il metaverso andrà oltre dando la possibilità di lavorare e collaborare in un ambiente a-spaziale.
In prospettiva giuslavoristica sono essenzialmente quattro gli elementi da indagare: il tempo di lavoro, il luogo di lavoro, la tutela del lavoratore e l’esercizio dei poteri datoriali. Con riferimento al tempo, le questioni problematiche appaiono agevolmente superabili se si accede alla teoria dell’avatar quale estensione “metaversificata” del lavoratore agente fisico, ovvero, il tramite con il quale il lavoro svolto dalla persona fisica produce risultati nel metaverso. In tale prospettiva, il tempo che il lavoratore trascorre nel metaverso va computato quale tempo di lavoro a tutti gli effetti, fermo restando che bisognerebbe anche verificare se la “tecnologia immersiva” non corrisponda, nella realtà, a una modalità di lavoro qualificabile come usurante. Perché la temporalità della realtà virtuale possa essere effettivamente assimilabile – ed economicamente computabile – alla realtà fisica, occorrerà quantificare indici di proporzione tra tempo lavorato nel mondo reale e tempo lavorato nel mondo virtuale.
Ed ecco allora che, per governare il tempo di lavoro nel metaverso sarà forse necessario – allo stato e in attesa di ulteriori evoluzioni tecnologiche – attivare dei timer di avviso di cessazione dell’esperienza immersiva. Anche nel caso del metaverso occorrerà quindi governare le criticità già rilevate nel caso dello smart working, in parte regolamentate dal protocollo del 7 dicembre 2021 che all’art. 3, come noto, affronta il tema della giornata lavorativa articolata in fasce orarie, individuando, in ogni caso, in attuazione di quanto previsto dalle disposizioni normative vigenti, la fascia di disconnessione nella quale il lavoratore non eroga la prestazione lavorativa, così prevedendo specifiche misure tecniche e organizzative per disattivare i dispositivi di connessione.
Con riferimento allo spazio, invece la questione appare più complessa perché il metaverso è, sostanzialmente, un non-luogo. La problematica che si pone all’interprete che tenta di definire il luogo di lavoro nel metaverso è quella di individuare una spazialità in un luogo che è, per definizione, a- spaziale. Peraltro, il lavoratore potrebbe essere chiamato a svolgere la propria prestazione lavorativa completamente nel metaverso o, più verosimilmente, potrebbe essere chiamato a svolgere la propria prestazione lavorativa in parte nella dimensione virtuale ed in parte nella dimensione fisica.
Nel primo caso l’esperienza immersiva sarebbe totalizzante, genererebbe un’osmosi tra lavoro online e lavoro offline, senza soluzione di continuità, nell’ambito di un ambiente allo stesso tempo virtuale e fisico che avvolge il prestatore di lavoro. Nel secondo caso si potrebbe porzionare l’attività lavorativa in reale e virtuale, applicando all’una i principi consolidati e, alla seconda, quelli in divenire. La definizione del luogo effettivo di lavoro nel metaverso, sia esso come parte o tutto della prestazione lavorativa, pone peraltro ulteriori questioni in relazione alla modifica del luogo di lavoro, inteso come elemento integrante dello ius variandi datoriale, per il quale è di tutta evidenza come sia necessario approntare idonei strumenti ermeneutici per affermare ad esempio l’applicabilità della disciplina sul trasferimento di cui all’art. 2103, co. 8, c.c. nel senso di comprendere anche i mutamenti non geografici del luogo di lavoro, anche chiarendo il concetto di “unità produttiva” nel metaverso.
(1 – continua)
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