Mentre il monsone flagella il paese e il tifone Yagi ha portato nuovi disastri nel Nord non c’è comunque pace in Myanmar e soprattutto non si vedono soluzioni.
Il conflitto “a bassa intensità” come viene raccontato in Occidente è in realtà una guerra civile a tutto campo che si trascina negli anni, sempre più sanguinosa. Dopo Ucraina e Medio Oriente è quella che produce più vittime, tra una miriade di forze diverse etniche e regionali che sono schierate in campo – spesso con temporanee alleanze tattiche – che riproducono come in un caleidoscopio i tanti conflitti regionali che insanguinano il paese.
Di fondo c’è una lotta senza esclusioni di colpi contro la giunta militare al potere dopo il colpo di stato del 2021. Guidati dal generale Min Aung Hlaing – che oggi è presidente ad interim, primo ministro e comandante in capo delle forze armate – i militari hanno rovesciato il governo di Aung San Suu Kyi e hanno trasformato il paese in un grande fronte di guerra anche se sembrano avere sempre di più i giorni contati, incalzati dalla guerriglia e senza un appoggio popolare.
Non si parla però più di accordi, mediazioni: è un “tutto contro tutti” che provoca decine di morti al giorno di cui in Occidente non parla nessuno. Città bombardate, assalite, riconquistate (ma nel frattempo diventate dei deserti cimiteri) con la popolazione civile che scappa dove può, con milioni di profughi che vagano ma non riescono più a lasciare i territori contesi visto che tutti gli stati vicini li respingono.
Il potere dei militari vacilla ma aumenta la violenza, la repressione e quindi la disobbedienza civile, l’opposizione generalizzata. La reazione dei militari è stata la coscrizione obbligatoria, il progressivo sequestro di tutti i giovani potenzialmente di leva che – dopo una frettolosa preparazione – vengono mandati a combattere, ovvero spediti al macello. Il fronte è mobile e le reclute si ritrovano a combattere contro etnie diverse dalla propria, ma comunque – se non sono uccisi al primo assalto – molti giovani disertano e passano al nemico, che quindi recupera così armi preziose peraltro generosamente messe a disposizione anche dalle varie potenze regionali strategicamente interessate a tenere sempre più purulento il bubbone della pestilenza birmana. Le terre rare nel nord del paese, i giacimenti di petrolio e soprattutto di gas, la via di comunicazione diretta Cina-Oceano Indiano fanno gola a tutti, ai cinesi soprattutto. In mezzo c’è una popolazione mite, sottomessa, fatalista, rassegnata, terrorizzata come è nel profondo dell’animo quella birmana, ma che a sua volta è divisa in decine di etnie, religioni diverse e con costumi, idiomi, abitudini e tradizioni che raramente nella storia hanno rappresentato uno stato unitario.
A larga prevalenza buddista, il paese conta anche una minoranza cristiana (4%) che si regge solo sul clero locale che lavora nelle sette diocesi cattoliche del paese. Le affiancano nel settore umanitario anche delle Ong che fanno capo al Pime che – senza ostentare – lavorano tra i gruppi più disagiati. C’è poi l’importante minoranza musulmana solo parzialmente integrata. I mussulmani di etnia Rohingya, stanziati nel Rakhine non hanno mai ottenuto una vera e propria cittadinanza e sono stati oggetto negli scorsi anni di persecuzione con violenti scontri, che oggi sono nuovamente ripresi nel contesto della guerra in corso fra gli indipendentisti arakanesi e la Giunta militare.
D’altronde raramente la Birmania ha goduto di periodi di stabilità dopo il periodo coloniale inglese. Nel dopoguerra, mentre si andava verso l’indipendenza con il disfacimento dell’impero britannico e una lunga resistenza anti-giapponese guidata da Aung San, non ci fu neppure il tempo per varare un governo che già Aung San era stato assassinato. Mentre all’estero i problemi birmani erano noti grazie alla luminosa figura di U Thant, segretario generale dell’Onu negli anni ‘60, in patria vi era uno stillicidio di colpi di stato, repressioni, elezioni più o meno libere in un sostanziale caos generale. Dopo il primo colpo di Stato militare di Ne Win Solo nel 1962, nel 1990 ci furono elezioni quasi regolari con la “Lega della Democrazia” guidata da Aung San Suu Kyi (premio Nobel per la pace nel 1991 e figlia di Aung San) che conquistò una larga maggioranza. I militari al potere non accettarono il risultato imprigionando San Suu Kyi. Trent’anni dopo siamo di fatto allo stesso punto e sempre con i militari al potere.
San Suu Kyi – che ha ormai 79 anni – pur avendo vinto le elezioni del 2015 e poi quelle del 2020 è nuovamente in prigione (attualmente pare sia “ai domiciliari” in una residenza segreta). Anche la sua immagine internazionale si è però appannata, accusata di non aver impedito le violenze sui Rohingya quando era al governo.
(1 – continua)
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