Caro direttore,
gli organi di stampa dicono che il colpo di stato era nell’aria. Non è vero. Era una possibilità, ma evitabile. Cosa è accaduto?

Le elezioni in pieno Covid hanno sancito la stragrande vittoria del partito di Aung San Suu Kyi. Forse la dimensione del successo ha, da un lato, spaventato i generali e, dall’altro, ha portato i civili ad atteggiamenti troppo trionfalistici. Certo è che se la vittoria avesse avuto una percentuale ridotta, i militari avrebbero avuto buon gioco nel dire che il consenso verso il loro operato era ancora forte.



Insomma: comunque fossero andate, le elezioni rappresentavano un punto di svolta per lo status quo. Ma il desiderio di democrazia era così forte che i birmani dicevano: “Sappiamo che con il Covid rischiamo la vita nell’andare a votare, ma il Covid passerà, mentre un’altra occasione di avere la democrazia non sappiamo se passerà ancora!”. Perciò l’invito ad andare a votare è stato univoco da parte di tutte le autorità religiose: buddisti, cattolici, protestanti, islamici. E i risultati elettorali si sono visti.



Cosa è accaduto? È mancato un adeguato appoggio da parte delle diplomazie estere per mediare tra i desideri di democrazia e la volontà di tenere sotto controllo il paese da parte dei generali.

Il Covid, l’ormai perdurante assenza di una politica estera europea comune (salvo interessi di alcune compagnie petrolifere), la (speriamo) temporanea assenza di una nuova politica estera Usa, la solitudine del Giappone nel panorama geopolitico dell’area, hanno creato i presupposti per quanto è accaduto. Ma quanto è accaduto, non poteva accadere se da Pechino non fosse venuta l’approvazione. Ma chi ha fatto carta straccia degli accordi con la Gran Bretagna sullo status di Hong Kong non si è fatto certo problemi nel dare “semaforo verde” sulla Birmania (non se la fila nessuno). Giocando anche malevolmente sulla questione Rohingya: non che non esista, ma è tale l’avversità nei confronti di questa etnia che la sola Aung San Suu Kyi non avrebbe potuto ribaltare la storia.



A colpire sono due aspetti: l’incapacità/ignavia delle cancellerie nella previsione dei fatti e la determinazione dei generali. Mi spiego.

Il ruolo geostrategico della Birmania è evidente anche per chi da profano guardi una cartina geografica. Oltre la metà del commercio mondiale passa attraverso lo stretto di Malacca-Singapore. Avere una strada terrestre alternativa a questa rotta è fondamentale per le merci cinesi dirette in Occidente. Non solo, l’accesso diretto dal Tibet con la nuova ferrovia veloce consente un risparmio di una settimana di navigazione. La Birmania è quello che nel grande gioco era l’Afghanistan per la Russia (zarista e sovietica). Per non parlare delle risorse naturali (idrocarburi, legname pregiato e terre rare). Perciò un’azione in quell’area era da prevedersi e da farsi.

Ma la gestione di tutto ciò (posizione geostrategica, risorse naturali) possono avvenire o con la forza o con la democrazia. In questi anni di relativa apertura, i militari non possono non aver visto e toccato con mano l’utilità di questa posizione. Io, che frequento queste terre, ogni volta che vengo qui sono colpito dai cambiamenti: ora ci sono le banche, i cellulari, i supermercati, traffico automobilistico, ristoranti eccetera. Certo, i puristi direbbero: l’occidentalizzazione, il capitalismo di Stato… Ma l’alternativa è lo stato totalitario: l’Albania di Hoxha versione orientale con unico mercato la Cina, ergo economia di sussistenza, stato di polizia (posti di blocco a ogni pie’ sospinto, carri armati nelle strade, irruzioni della polizia), assenza di contatti con il resto del mondo (impossibilità di progresso), sudditanza totale alla Cina.

L’alternativa è il modello thailandese, dove mi pare che re, esercito (molto potente anche lì), società civile e religiosa vivano bene. Certo l’economia di mercato non è un paradiso. Ma è il sistema meno imperfetto. Salvo far rimanere la Birmania l’unico paese al mondo (con 60 milioni di persone!) chiuso. Bello per gli etnologi e i turisti, non per chi ci vive (e muore: i vescovi birmani lanciano da mesi appelli per il Covid).

Ma c’è un fatto che mi colpisce. In questi anni di parziale apertura, l’economia ha avuto tassi di crescita spaventosi (certo partiva dal niente: è più facile crescere) con maggiori introiti per lo Stato. Mi domando: saranno disposti a rinunciare a questo i militari? E i civili? Per quanto tempo? Per quanti morti?

Cosa si può fare? Devono immediatamente intervenire i player internazionali per dire: il modello del controllo militare del paese (Covid sì o Covid no) non regge neanche più in Africa. Potete star chiusi nei vostri confini o invece far affari con tutto il mondo. Nessuno nega il valore unificante dell’esercito (non è una captatio benevolentiae, è vero).

Si tratta di chiarire, nel nuovo quadro, i ruoli di ciascuno. Se volete, troviamoci intorno a un tavolo, è una reciproca convenienza, perché diversamente nessuna impresa non cinese farà più investimenti in Birmania. La domanda è: preferite il modello Albania di Hoxha o il modello thailandese? Questa è la domanda. Ma qualcuno la pone?

(Un lettore dal Myanmar)

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