Caro direttore,

torno purtroppo a raccontarti di violenze, abusi e vessazioni qui in Myanmar.  Ho cercato di evitare l’argomento per qualche tempo, perché quasi “noioso”. E’ paradossale usare questo termine davanti al dramma che viviamo, ma la comunicazione moderna ha ritmi e tempi che capisco. Tuttavia i fatti, una volta di più, parlano da soli.



Inutile dirti che in tutti questi mesi c’è stata un’escalation di terrore. L’ultimo (solo in senso cronologico) tassello di questa strategia della tensione è quanto ti racconterò. Ma drammaticamente tutti noi sappiamo che altri seguiranno. E questo è il dramma nel dramma che viviamo tutti. Ricchi e poveri. Istruiti o ignoranti. Perché ogni sera, quando andiamo a letto, ricchi o poveri, istruiti o ignoranti non ci domandiamo più “cosa ci porterà di bello domani il sole?”, ma “domani, quando sorgerà il sole, a quali violenze io e i miei figli dovremo assistere?”. Questo è “il” punto.



Veniamo, ora, al caso specifico. Io che pure non sono un cattolico fervente, sono stato informato dal mio parroco che, per ragioni Covid, le messe erano sospese. Ma qualcosa non mi tornava. Sapendo che la situazione sanitaria era grave, ma non diversa da quella delle settimane scorse, ho voluto approfondire. La realtà è che, nel loro perverso tentativo di creare un clima di terrore, i ribelli hanno realizzato attentati ai luoghi di culto delle varie religioni con l’intento di fomentare un odio religioso trasversale. E’ del tutto evidente che i vertici delle singole confessioni sanno bene chi siano i veri autori. Ma c’è il rischio che “qualcuno”, abilmente manovrato, facendo leva su qualche fedele ingenuo o dal sangue caldo (che sempre si trova), riesca a scatenare disordini di matrice religiosa, legittimando nuovi interventi militari. Così, per paura di attentati e di una sorta di “strategia della tensione” in salsa birmana, è stato deciso di non celebrare le messe.



Se, da un lato, questa tecnica mostra una debolezza di fondo del sistema, dall’altra preoccupa. Sono disposti a tutto. Senza limiti.

L’escalation delle violenze non rispetta neanche gli “uomini di Dio”: monaci buddisti, religiosi cattolici o islamici, figure che un tempo erano untouchables. Ora non più. Potrei, solo io, citarti vari casi di sacerdoti e seminaristi picchiati o uccisi o spariti. Cose mai viste. Sono “numeri” impressionanti, che nessuno potrà mai realmente documentare. E dietro quei “numeri” ci sono nomi e volti.

L’ultima notizia in questo senso mi giunge da una cittadina che non cito per preservare la fonte, dove è stato compiuto un attentato contro una caserma dei ribelli. Poiché, proprio davanti ad essa c’è una chiesa cattolica, i cattivi hanno preso e torturato prete e giovane seminarista che alloggiavano lì. Sono stati poi restituiti. In quali condizioni? Quelle di un pugile dopo un combattimento con Mohamed Alì.

Un altro sotterfugio con cui si incarcerano i giovani è il seguente: i cattivi entrano in una casa, arrestano un giovane, gli mettono tra le mani un’arma (che non aveva), fanno una foto e il gioco è fatto. Valli poi a difendere…

Insomma, la violenza imperversa. Che fare? Tutti i tentativi diplomatici dell’Onu susseguitesi in questi mesi non sono approdati a nulla. I vari Inviati e Alti commissari sono tornati a casa così come erano arrivati. Il dialogo ha bisogno che chi tiene il bastone sia disponibile. L’ipocrisia dell’Onu è un elemento che qui fa molto discutere. Si sa che si fa quello che si può (la realpolitik è stata inventata dai gesuiti e insegna), ma davanti a tutti questi morti e a questa massa di violazioni dei diritti c’è un limite.

Perciò il rischio di una guerra civile avanza giorno dopo giorno. Il bagno di sangue sembra essere sempre più inevitabile. Spero che qualcuno lo fermi.

I cinesi continuano a dire: noi trattiamo con chiunque sia al potere, in Afghanistan come in Birmania. Non interferiamo nella politica interna. E’ un approccio molto più che pilatesco, perché non si può trattare con chiunque. Ci sono limiti. O no?

Un lettore dal Myanmar

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