Caro direttore,
come ricorderai, ti scrissi in anteprima appena iniziarono a circolare notizie di provvedimenti di clemenza verso Aung San Suu Kyi. Scrissi dei dubbi circa la veridicità della notizia: poteva trattarsi di una fake news per tastare l’esito che ne sarebbe venuto. Evidenziai anche, qualora fosse stato vero, la fumosità circa la consistenza di questo provvedimento: grazia totale, grazia parziale, grazia condizionata, semplice trasferimento agli arresti domiciliari (per altro non nella sua casa storica).



Quest’ultima ipotesi era legata anche a voci circa un aggravamento dello stato di salute della lady: neanche Belzebù avrebbe potuto permettersi di far morire il capo dell’opposizione in una cella d’isolamento di un carcere militare come un qualsiasi altro detenuto. Insomma, in mancanza di notizie ufficiali chiare, ognuno era libero di darne la lettura che riteneva più prossima al vero.



Ora, a bocce ferme, è confermato: trattasi di una mera diminuzione degli anni di carcerazione, che per una donna di 78 anni è totalmente ininfluente. Certo, il fatto di non essere più reclusa in una cella ma in un’abitazione (anche se non la sua) è cosa positiva. Ciò che ora appare chiaro, anche alla gente comune, è che siamo di fronte a un’operazione di facciata a favore di telecamere. Peraltro uno show a cui pochi hanno dato retta, visto che le major non hanno dato risalto alla cosa.

La verità è che non è modificata la sostanza delle cose. Nulla è cambiato: gli eccidi, le violenze e i soprusi continuano. Potrei citarne a decine. Qualcuno ne tiene il conto per presentare tutto al tribunale dell’Aja? Perché chi volesse concretamente trovare un accordo si comporterebbe diversamente. Comunque: l’opinione prevalente è che il provvedimento di parziale clemenza verso la lady sia un segnale di debolezza dei militari. Per altri è solo una mossa tattica. Niente di più. Rimane la domanda: perché questa iniziativa? Perché ora? La risposta nelle righe che seguono. Ovvero un segnale verso Singapore. Io, infatti, continuo a sostenere quanto ti scrissi più è più volte. Questa situazione non si risolve con battaglie sul campo.



È evidente che c’è una situazione di stallo che può durare decenni. Da tempo scrivo che questo status quo, tutto sommato, va bene ai generali e ai signori della guerra degli Stati di confine. “I ladri di Pisa” li avevo etichettati: litigano di giorno per poi andare insieme a rubare di notte. Se l’obiettivo è isolare il governo militare della Birmania, l’unica strada è bloccare i conti correnti bancari riconducibili alla giunta militare presso le banche di Singapore. Tale Paese e le sue banche, anche in forza della sua vicinanza e posizione geostrategica, sono la chiave di tutto. Se Singapore vuole continuare a svolgere il suo ruolo di Svizzera dell’Oriente e uscire dalla black list delle piazze finanziarie andrebbe messa alle strette: non può ignorare le violazioni dei diritti civili da parte di coloro che versano nelle sue banche i lauti profitti dei loro traffici. Diversamente sarà sempre nella black list delle piazze finanziarie.

Certo: pecunia non olet, ma fino ad un certo punto, Svizzera docet. Gli Usa e l’Occidente – con costi umani, militari, finanziari – hanno fatto guerre vere per difendere, sostenere e instaurare democrazie in molti Paesi. Con esiti negativi. Qua si può mettere in ginocchio un governo militare, ufficialmente comunista, che impedisce lo sviluppo della democrazia e azzera gli esiti di una consultazione popolare. Il tutto con un semplice provvedimento finanziario, senza fare guerre. Perché non procedere?

Un lettore dal Myanmar

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