Caro direttore,
le notizie che giungono qui a Rangoon sono molto parziali. Mi riferisco sia alla nostra situazione interna, sia a quanto accade nel mondo (le vicende del Kazakistan). Per condivisione fra sfortunati, non possiamo che essere preoccupati per loro. Le steppe kazake sono ben diverse dalla giungla e dalle risaie birmane, ma il cuore dell’uomo è lo stesso.
Come ho avuto modo di scriverti più volte, l’Asia è sempre più al centro di un grande risiko mondiale. Quanto accaduto in Birmania, poi in Afghanistan e ora in Kazakistan, è indicativo. E’ vero che forse “tre indizi non fanno una prova”, ma mi pare chiaro che accanto a fattori locali sono in atto dinamiche politico-economiche globali. A mio modesto parere, dall’osservazione di dati noti a tutti, non si può non cogliere come i paesi asiatici siano quelli più coinvolti nei cambiamenti scaturiti dal nuovo ordine mondiale. I leader locali sono attori di un gioco ben più ampio a cui si prestano per convenienza economica personale. Nulla di nuovo sotto il sole.
La caduta delle ideologie e internet hanno favorito la globalizzazione dell’economia. La fame di profitti immediati ha indotto le aziende occidentali a delocalizzare la produzione laddove vi era forza lavoro a basso costo, con scarsa conflittualità sindacale (basta accordarsi con il potente di turno) e livello d’istruzione adeguato. Il risultato è che quest’area – soprattutto la Cina – è diventata “la fabbrica del mondo”. Generando però una pericolosa dipendenza, perché tutto ormai viene prodotto qui: dalle mascherine ai microprocessori. Molti fattori hanno giocato in questa dinamica: la già citata disponibilità di forza lavoro (popolazione enorme con elevato tasso di natalità e livello d’istruzione in crescita), disponibilità di materie prime, possibilità di produrre sia per mercati maturi come per mercati pressoché vergini, stabilità politica (costi quel che costi) ed economie in espansione.
Ma tornando alla Birmania, ti aggiorno. Guarda caso, cogliendo il momento in cui l’attenzione pubblica mondiale era incentrata sul Kazakistan, è stata comunicata l’entità della condanna a carico della Lady per il possesso delle sue guardie del corpo di walkie talkie thailandesi non dichiarati (altri 4 anni). E’ chiaro che questo cambia poco o nulla. Ma il messaggio è arrivato forte e chiaro: “Facciamo quello che vogliamo”.
E’ altrettanto chiaro che in questo quadro (leader politici agli arresti o alla macchia) l’opposizione è in difficoltà. In più, già nell’ultima mia mail paventavo – con una visione cinica – come gli scontri negli stati di confine fossero in realtà un “gioco delle parti”. In effetti, questa situazione consente a tutti i capi militari (golpisti o leader delle milizie etniche) di rafforzare il loro potere e incrementare i propri business. Evocavo, in tal senso, l’immagine dei “ladri di Pisa”: gente di malaffare che di giorno litiga, salvo poi andare insieme di notte a rubare. Se così fosse, come temo, da dove partire per una speranza di ricostruire la democrazia?
Penso che l’unica reale possibilità sia nei giovani delle grandi città, che non hanno secondi fini: li anima solo un autentico desiderio di libertà. Certo, non hanno letto i classici della filosofia politica occidentale, ma il loro desiderio di verità e libertà è puro. Non possono però essere lasciati soli. Davvero c’è la necessità che le autorità religiose siano accanto a loro, in modo ben più deciso. Siano esse buddiste, cristiane o islamiche.
La Chiesa cattolica svolge un grande lavoro attraverso le Caritas: certo – compatibilmente – con i mezzi a disposizione. Si è guadagnata un grande rispetto da parte della popolazione. Anche i vescovi hanno fatto sentire la loro voce, con la sola eccezione del cardinale Bo. Questi, con gesti distensivi, cerca di mantenere un canale di dialogo, ma ciò non viene apprezzato dal popolo, che ormai ha scelto la linea del “non si tratta con chi si è macchiato del sangue dei fratelli”. Un conto è proporsi come mediatori in un conflitto che potrebbe durare anni, altro è prestarsi a photo opportunity …. totalmente non opportune.
Comunque, se c’è un fatto positivo, è che permane quell’unità tra le varie generazioni che prima del golpe non esisteva. Ora giovani e anziani lavorano insieme.
Ma non si può neanche affidare tutto alla politica. L’attuale situazione potrebbe andare avanti per anni e la vita continua. Non possiamo vivere “aspettando Godot!” o cercando “l’isola che non c’è”.
Per noi cristiani che proprio in questi giorni viviamo l’incarnazione di Dio è più facile. Per chi vive l’esperienza buddista, che ha un approccio fatalista sulla realtà, questo è molto più difficile. Spero che questa circostanza sia l’occasione per un cambiamento di mentalità e di missionarietà reale.
Un lettore dal Myanmar
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