La crisi e l’incertezza hanno bloccato intanto anche economicamente tutto il paese. Sparito il turismo e rimasto così il governo senza riserve valutarie, la gran parte degli alberghi di livello internazionale sono chiusi e le uniche due strutture aperte a Yangon sono desolatamente vuote, con i soldati che pattugliano gli ingressi, mitra alla mano.  Diviso e senza mobilità interna il paese non produce più nulla, sono difficili anche le poche esportazioni “ufficiali” per le difficoltà nei collegamenti e l’economia birmana è così allo stremo con una inflazione incontenibile.



Si sopravvive con meno di un euro al giorno, ma il costo di un sacco di riso si è triplicato in un anno anche se i salari ufficiali sono rimasti gli stessi. Fermi gli investimenti stranieri e bloccata l’edilizia manca il lavoro perché tutto è condizionato dalla guerra in corso che non lascia intravedere soluzioni. Il cambio “nero” è tre volte l’ufficiale e per 100 euro ti consegnano una mattonella di banconote che più sporche non si può salvo i “nuovi” biglietti da 10.000 Kyat che comunque valgono meno di due euro.



Il problema è che se anche si raggiungesse un compromesso tra i militari dell’esercito “nazionale” e i diversi eserciti etnici regionali ricomincerebbero probabilmente altri conflitti locali tra le diverse entità, ciascuna delle quali ha diritti da accampare e ragioni storiche a confermarli, mentre non è chiaro come si riuscirà a riassorbire la resistenza armata dei giovani che dalle città hanno raggiunto le aree del conflitto nella speranza di rovesciare i militari creando le cosiddette People Defense Forces.

Chi ha potuto è già scappato all’estero o ha preso le armi e combatte, eppure – nonostante l’arrivo di tanti profughi – molte case almeno nel centro di Yangon sono vuote e di fatto si sbriciolano senza manutenzione sotto la pioggia tamburellante e con l’umidità che non dà respiro. In periferia, invece, sterminate bidonville crescono in condizioni igieniche e di violenza pazzesche, ma non c’è modo per intervenire salvo che per singoli interventi, ad esempio uno – meritorio – di una ONG legata al PIME di Milano che raccoglie i bambini di un quartiere cresciuto ai margini della più grande discarica della città, ma è – appunto – una goccia nel deserto.



Il ceto medio non c’è più, il commercio langue perché non ci sono merci e neppure compratori con i prezzi dei generi alimentari che crescono perché è sempre più difficile farli arrivare dalla campagna. Tutte le merci di importazione sono spaventosamente care – ovvero a prezzi occidentali – ma con la gran parte della gente che ha un potere d’acquisto di un euro al giorno, spesso per mantenere tutta la famiglia. I militari non concedono più licenze di importazioni ai beni di prima necessità e medicine, limitandosi ad importare armi e benzina soprattutto per l’esercito. Anche per questo il traffico di Yangon passa dal caos di quando il carburante è disponibile al silenzio di quando è razionato.

I (pochi) voli in uscita – in pratica dal Myanmar si esce solo per via aerea – sono stipati, ma molti vengono respinti all’ultimo momento anche se hanno in mano (di solito comprato con la corruzione) il prezioso visto di uscita ma comunque l’aeroporto internazionale è deserto, i negozi chiusi, i controlli all’ingresso dell’area portuale molto scrupolosi per evitare fughe dal paese.

Prima la guerra, poi il Covid, poi ancora la guerra civile: non ci sarà mai pace per il Myanmar?

La situazione è sotto gli occhi del mondo che però è distratto eppure in Birmania è in corso il terzo più sanguinoso conflitto mondiale e il silenzio non fa che coprire una realtà di dolore sconfinato.

A parte la Cina e le altre potenze regionali che curano soprattutto i propri interessi la Comunità internazionale pensa ad altro. L’Unione Europea di fatto non esiste e sembra disinteressarsi del conflitto riproponendo solo lo sterile strumento delle “sanzioni” che in definitiva vengono a colpire solo il settore tessile, una delle poche esportazioni storiche del paese.

Ciò rende ancor più difficile la situazione economica di migliaia di famiglie che hanno perso l’unica fonte di sussistenza, tenuto conto che il settore occupava prevalentemente manodopera femminile a basso prezzo. Le sanzioni, alla fine, colpiscono proprio la parte più povera e vulnerabile del paese.

Per questo la UE si trova ad essere sempre più assente, oltre che essere in evidente imbarazzo visto che comprensibilmente non riconosce i militari al potere come governo legittimo, ma poi viene a perdere anche la possibilità di poter “contare” qualcosa di più. Alla fine di questa guerra se ne parla poco e solo Papa Francesco sembra ricordarsi del dramma birmano, di un paese sospeso sull’orlo del baratro, ma soprattutto senza futuro.

Al centro di Rangoon, l’antica capitale inglese che ora appunto si chiama Yangon, c’è il vecchio mercato coperto una volta pullulante di traffici. Oggi buona parte dei negozi sono chiusi, non gira un turista, i negozi falliscono. Al primo piano resiste una bottega di antiquariato gestito da alcune signore anziane. Incontrandole si capisce subito che sono persone fiere, istruite, parlano un inglese eccellente e ostentano dignità estrema, ma i loro occhi esprimono la profondità del dramma, la disperazione, la commozione appena si ricordano quei giorni lontani quando un minimo di pace permetteva il commercio e il turismo fioriva.

Chi compra oggi oggetti di antiquariato pregevoli, ma inutili visto che conta di più una manciata di riso? Il ringraziamento per aver acquistato un oggetto di poco valore è commuovente e drammatico. Quegli occhi di una profondità e sincerità disarmanti ti ringraziano con discrezione, ma valgono più di mille discorsi. Mi sembrano in qualche modo il muto testamento di una Birmania dimenticata da tutti che ormai non c’è più e che probabilmente, purtroppo, mai più ritornerà.

(3 – fine)

 

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