Caro direttore,
quando iniziammo il nostro dialogo mi ero ripromesso di non indugiare nel racconto delle violenze. Ma davanti al silenzio del mondo dei media, non ho potuto non raccontarvi quanto il mondo non conosce. Vorrei però, almeno stavolta, tornare al mio proposito iniziale e descrivervi il “sentiment” con cui qui si vive.
Ciò che vedo è ben più di uno “stato d’animo”, ciò che vedo crescere a occhio nudo è una depressione collettiva. Nessuno spera più.
Per spiegarmi, vorrei chiedervi lo sforzo di immedesimarvi per qualche minuto in questa gente. Potete pensare di essere un contadino, impiegato, imprenditore. Immaginatevi di essere chi volete… poco cambia. Tutti hanno chiara la situazione nei suoi aspetti generali e tutti vivono una situazione spaventosa, pur con le inevitabili differenze personali.
Dopo decenni di dittatura, a cui sono seguiti alcuni anni di aperture, i militari hanno riportato indietro l’orologio della storia. Volendo fare un paragone biblico è come “la traversata del deserto” del popolo ebraico per giungere alla Terra Promessa. Non arrivava mai, qualcosa lo impediva sempre: il racconto di quel travaglio lo conosciamo bene. O volendo fare un esempio a molti vicino: è come chi è affetto da un tumore, viene operato e, a un passo dal fatidico quinto anno, scopre che la bestia si è riaffacciata! Immaginate allora il sentimento di tutto un popolo che a un passo dalla democrazia, viene ricacciato indietro in un’immensa prigione a cielo aperto dove i carcerieri hanno la forza per impedire il ritorno alla libertà. Nuovamente e per lungo tempo. E’ un perverso ma reale gioco dell’oca!
Per decenni la gente aveva vissuto la dittatura, poi ha assaporato – e apprezzato – per qualche anno una sorta di libertà “condizionata”. Ora di nuovo è tutto come prima. Psicologicamente è drammatico perché di nuovo bisognerà attendere decenni perché qualcosa accada. I vecchi (dai 50 anni in su) dicono “Inutile lottare, io non sopravviverò a questa nuova prigione”. Alcuni giovani si sono dati alla macchia, altri sono fuggiti all’estero, altri ancora si arrabattano come possono. Insomma alla speranza si è sostituita la rassegnazione. Perché questa rassegnazione?
Tutti però hanno chiaro una differenza fondamentale rispetto al passato: l’attuale situazione non è più meramente “un problema locale”. Ora la Birmania è un tassello fondamentale nel grande gioco geopolitico dei nuovi equilibri. Mi spiego. Il regime militare e il suo ultra isolazionismo in passato era l’applicazione del modello “Albania di Oxha” trasferito in Asia. La cosa non turbava più di tanto il mondo, anzi: il suo isolamento la rendeva folclorista, i turisti accorrevano. Eravamo una sorta di Jurassik Park dell’antica cultura buddista. Chi voleva vedere com’era il mondo una volta veniva qui. Chi voleva vederne la versione edulcorata, mischiata ai canoni capitalistici andava in Thailandia. Per noi, quindi, era chiaro che il nemico da combattere era un nemico interno: una casta militare birmana paludata di ideologia maoista che in realtà affamava il popolo e accresceva i suoi depositi bancari a Singapore.
Ora la globalizzazione, internet e la parziale apertura degli anni scorsi hanno creato un cambiamento d’epoca.
Ora – per la sua posizione geografica – la Birmania è diventata fondamentale, anzi vitale, per la Cina. Qui il nostro potente vicino sta costruendo grandi infrastrutture (porti, oleodotti, autostrade e ferrovie) allo scopo di bypassare lo stretto di Malacca sotto il controllo americano. La posta in gioco non è più un territorio pur ricco di risorse naturali (legname pregiato, riso, acqua, pietre preziose, “terre rare”, idrocarburi, oppio, ecc). Ora è la posizione strategica a farne il ganglio fondamentale del “nuovo grande risiko mondiale” che si è aperto con la globalizzazione.
Ma è ormai chiaro a molti che la lotta armata interna non è la soluzione. Ammesso e non concesso che gli scontri che continuano (tralascio la descrizione) sia solo un gioco delle parti, è chiaro che questi non producono e non produrranno esiti. Anche l’invio di aiuti economici (finanziari o materiali) alla popolazione è impossibile: finirebbero nelle mani dei militari. L’ONU è un timido attore di quello che in Italia chiamate “il teatrino della politica”.
Sono davanti a un paese che non sa cosa fare se non rassegnarsi. Non ha più neanche la forza di piangere.
Se è vero – e mai, come ora qui, è stato più vero – che il pericolo più grande per l’uomo non sono le guerre e le malattie ma la perdita del gusto di vivere, pongo la domanda: come ridare speranza a questo popolo?
(Un lettore dal Myanmar)