Caro direttore,
il nostro è un dramma che si consuma a fuoco lento, con tutto ciò che ne consegue. Soprattutto in termini di sofferenze e morti. È sempre più evidente che l’attuale regime crollerà, ma potrebbe volerci molto tempo. Il “fuoco lento” potrebbe essere lentissimo. Perché? Il quadro è il seguente.
I militari non hanno il controllo del Paese, né potranno mai averlo, eccetto che per le città del centro del Myanmar (per altro, la novità è che anch’esse ormai non sono immuni da combattimenti nelle loro periferie).
Il governo è tenuto in vita dal sostegno politico di Russia e Cina (le risoluzioni ONU sono bloccate dai loro veti, semmai potessero servire a qualcosa).
A questo – ovviamente – segue un sostegno militare dei sovracitati Paesi, che hanno ben chiaro che trattasi di “morte annunciata”, ma sono ben felici di vendere ai generali armi desuete in cambio di materie prime per loro fondamentali, nonché acquistare prodotti di bassa tecnologia a prezzi ancora più bassi di quelli cinesi (c’è sempre, più a Sud, una Cina della Cina) versando il corrispettivo su conti correnti delle banche di Singapore.
La posizione strategica della Birmania (il suo controllo consente di bypassare lo stretto di Malacca) fa gola alla Cina, che qui si gioca l’asso di briscola, mentre gli USA e l’Europa sono concentrati su Israele e Ucraina. In questo senso, la Cina ha allentato i rapporti con la giunta militare e ha avviato da tempo (come già scritto) contatti con la resistenza birmana. Questo per due ragioni: per non vedersi bloccati gli attuali scambi (i valichi di frontiera e le pipelines con la Cina non sono in mano ai militari) e per avere contatti sicuri per il futuro. Come dicevo in altri contributi, è la vecchia logica del “Non interessa di che colore sia il gatto, purché acchiappi il topo”.
Quanto a Europa e USA, abbiamo già detto che il loro focus è su altri quadranti; non si capisce però la loro assenza, quando anch’essi hanno interessi economici da difendere. Per di più, avrebbero un grande vantaggio: i birmani temono fortemente la Cina. Da secoli. È il “grande vicino”: ha una potenza demografica, economica e militare imparagonabile. Moltissimi cinesi sono entrati in Birmania negli anni scorsi aprendo attività economiche che hanno spazzato via il piccolo commercio locale. Non solo: gli enormi investimenti per la Belt and Road, gli oleodotti che convogliano il petrolio in Cina, le autostrade, il nuovo porto con alti fondali danno l’idea della potenza di fuoco economico che Pechino è in grado di mettere in campo. A ciò si aggiunga la potenza militare e il ricordo, qui ancora vivido, dell’annessione del Tibet con fuga in India del Dalai Lama. Tenete presente che Tibet e Birmania sono uniti da un grande legame: fanno parte di un unico ceppo etnico che funge da cerniera tra la razza indoeuropea e quella orientale, e condividono la stessa religione (seppur con sfumature diverse).
Le gerarchie buddiste – le uniche a poter realmente creare un sommovimento popolare – tacciono (e usciranno mal conce da questa triste storia), gli islamici non vengono toccati per non disturbare i cospicui finanziamenti dei loro amici del Golfo arabo, i cristiani – minoranza nelle minoranze – continuano con i poveri mezzi di cui dispongono a fare carità e a svolgere un lavoro di mediazione su tante situazioni.
Non esiste più nulla che possa dirsi di un Paese civile, anche limitandosi ai soli aspetti minimali: assistenza sanitaria inesistente (esiste solo per i militari), giustizia in mano ai militari e stato di diritto vuoto di significato, scuole ferme (un’altra generazione che cresce senza istruzione e senza fare l’esperienza della socialità che la scuola in primis permette).
Infine la disgregazione sociale: sono molte le famiglie in cui i figli maggiorenni hanno smesso di lavorare o di studiare e si sono dati alla macchia per evitare la coscrizione obbligatoria. Molti sono coloro che non sanno dove sono i loro figli.
Cosa regge? La voglia di vivere, il desiderio di libertà e verità di questo popolo ed insita in ogni uomo.
Capite però che questo “fuoco lento” comporti migliaia di morti inutili e sofferenze evitabili. Ma, domanda delle domande: chi decide i tempi di cottura? Che il regime non abbia prospettive di lungo termine, ripeto, è evidente. Staccare la spina e offrire un esilio dorato sarebbe la cosa più semplice. L’alternativa è una carneficina inutile da cui potrebbero non essere esenti gli attuali leaders. Ma c’è un timore sottile: che domani i militari trovino appigli per rimanere sfruttando equilibri politici mondiali a noi ignoti, ma dettate dal Grande Risiko mondiale.
(Un lettore dal Myanmar)
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