A livello internazionale il conflitto birmano resta sottotraccia, con i grandi del mondo formalmente silenziosi, anche se non è un segreto che la giunta militare sia rifornita da armi russe e cinesi, i più interessati a controllare l’area (per la Cina si tratta in sostanza di assicurarsi uno sbocco sull’Oceano Indiano dallo Yunnan). L’Unione Europea è in una situazione di stallo: non riconosce il governo militare e ha formalmente sostituito i propri ambasciatori con “incaricati d’affari”, ma si trova così in difficoltà anche nel fornire aiuti umanitari perché – de facto – finirebbero nelle mani dei militari, senza garanzia di poter raggiungere popolazioni in aree sotto il controllo dei gruppi etnici o in conflitto, dove i bisogni sono maggiori. Un contesto, quindi, molto teso, nel perpetuarsi di una situazione che si credeva temporanea e che si è invece incancrenita, con il Governo di Unità Nazionale (NUG), costituitosi in esilio, che rivendica una totale intransigenza rispetto ad ogni soluzione negoziale con i militari e questi stessi che lo considerano un “gruppo di terroristi”.



L’aspetto che più colpisce è oggi il clima di insicurezza totale, che non si manifesta solo con i soldati schierati nelle vie di Yangon (Rangoon) a pattugliare le strade con le armi spianate o con il coprifuoco che dopo tre anni incombe ancora sul Paese. È vietato di fatto comunicare, i militari possono sequestrare i telefonini e verificare i messaggi whatsapp, è vietato fotografare obiettivi “sensibili” (ovvero praticamente tutto) così come muoversi nel Paese anche solo per ricongiungimenti familiari.



Innumerevoli famiglie sono quindi divise e spesso restano senza notizie dei loro cari anche perché non ci sono comunicazioni con le zone controllate dalla guerriglia.

Nella notte i camion dei militari vanno a rastrellare interi quartieri della capitale alla ricerca di oppositori e “terroristi” ed arrestano le famiglie di chiunque non sia a pernottare presso il proprio domicilio.

Eppure Yangon è ancora relativamente più sicura delle regioni periferiche: si è passati dagli attentati quotidiani ad una maggiore apparente sicurezza e quindi c’è una calata di gente senza casa che sciama verso la città alla ricerca di cibo e di un lavoro estremamente improbabile, tanto che sono aumentati a dismisura scippi, rapine e violenze di ogni tipo oltre alle baraccopoli in periferia, precarie soprattutto in queste settimane di tempo e clima inclemente.



In questo contesto geograficamente distante da noi, come per tante altre guerre in corso ai nostri confini, va in scena la disperazione.

Gli ospedali, per esempio, sono senza medici e medicine. Questo anche perché al momento dell’ultimo colpo di Stato militare moltissimi dipendenti pubblici si erano dimessi sperando così di bloccare la macchina statale. Tre anni dopo l’inizio del conflitto però i militari sono sempre lì, i dimissionari della macchina burocratica statale, come medici, insegnanti e impiegati che se ne erano andati sperando di ribaltare una situazione che sembrava solo transitoria hanno perso il lavoro e lo stipendio, finendo schedati come oppositori (con le loro famiglie). I più qualificati sono scappati a centinaia di migliaia, ma oggi le frontiere sono blindate e comunque praticamente tutte le aree di confine sono comunque in mano alla guerriglia – dal nord al sud, all’est verso la Thailandia come all’ovest verso il Bangladesh.

Come conseguenza la sanità pubblica è allo sbando, le università deserte, molti ragazzi non vanno più a scuola perché i genitori temono un loro rapimento ritorsivo.

Nella magnifica pagoda Shwedagon, Stupa principale della Capitale e la più grande del Myanamar, davanti a una delle tante statue del Buddha pochi giorni fa c’erano molti giovani inginocchiati e ci hanno spiegato che pregavano di riuscire a lasciare il Paese, per non venire arruolati.

(2 – continua)

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