Caro direttore,
continuo con profondo dolore a non vedere attenzione dei media occidentali sulla situazione qui in Myanmar: salvo errori, da mesi non si fa cenno sui telegiornali italiani e occidentali del nostro dramma.
Sono realista: capisco che la Birmania (come Etiopia, Haiti, Venezuela, tanto per citare realtà dove altri amici sono coinvolti) non faccia notizia. Ma credo che un giornalismo serio non dovrebbe rinunciare a raccontare i drammi quotidiani. Quanto accaduto in questi giorni – per altro – non può neanche essere derubricato a normali accadimenti.
Il fatto più eclatante è la fucilazione di 4 uomini condannati a morte. Nelle mie precedenti lettere avevo evidenziato che, oltre alle migliaia di vittime civili negli scontri con i militari, vi erano migliaia di carcerati per reati di terrorismo e decine di condannati a morte. Finora le sentenze erano sulla carta. Ora le condanne vengono eseguite. Il 25 luglio quattro uomini, condannati alla pena di morte per terrorismo, sono stati fucilati. I loro nomi: Kyaw min yu, Phyo zeya taw, Hle myo aung, Aung thura zaw. I loro corpi non sono stati riconsegnati ai famigliari. Nessun notiziario occidentale ne parlerà.
Di questi, il più famoso era il primo: aveva 53 anni. Già nel 1988 aveva guidato la rivolta degli studenti e già più volte era stato arrestato. Era noto con lo pseudonimo di “Jimmy”. Il secondo era un parlamentare vicino ad Aung San Suu Kyi. In ogni caso tutti sono stati condannati per terrorismo in processi farsa. Qui, l’accusa di “terrorismo” è quanto di più fluido possa esistere. “Terrorista” può essere anche il sacerdote o monaco che viene sorpreso a portare generi alimentari ai famigliari degli arrestati. Si tenga conto che gli avvocati difensori dei malcapitati vengono invitati a non intervenire nei processi e a rimettersi alla clemenza della corte. Oppure messi in condizioni di poter esercitare la difesa. Gli avvocati che arrischiano un’azione un po’ più ardita vengono esclusi dal loro albo. Da ultimo, in questo genere di processi, non è l’accusa che deve dimostrare la colpevolezza ma è l’indagato che deve dimostrare la propria innocenza. È l’inversione dell’onere della prova. Roba da gulag staliniani.
Finora le condanne a morte, come dicevo, erano – speravamo fossero – sulla carta. Ora le sentenze, complice l’attenzione mondiale sulla guerra in Ucraina, vengono eseguite. È evidente che tutto ciò vuole avere un effetto dimostrativo: tutti ne siamo scossi. Cresce però nel contempo anche la rabbia, con effetti non prevedibili.
Aung San Suu Kyi (da noi detta ”the Lady”: perché il suo nome non può neanche essere pronunciato!), finora rinchiusa in una località segreta, è stata trasferita nel carcere della capitale e processata per vari capi d’imputazione tra cui quella di frodi elettorali. Alla sua età (76 anni) non è fisicamente facile reggere questa condizione (tenendo conto anche della situazione climatica).
In tutta la nazione continua la guerriglia e le azioni di rappresaglia dell’esercito (specie nello stato di Sagaing) con morti da ambo le parti. I cattivi incendiano dove passano, anche i monasteri. Usano armi pesanti (bombardamenti aerei, cannoneggiamenti), i partigiani armi leggere. È uno scontro impari, ma in ogni caso nessuno prevale realmente controllando tutto il territorio.
Continuo a pensare che una campagna stampa, simile a quanto messa in atto per Regeni o lo studente egiziano arrestato al Cairo, potrebbe essere replicata per le vicende birmane.
Un lettore dal Myanmar
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