Caro direttore,
è passato esattamente un anno da quando il 1° febbraio 2021 un gruppo di generali ha deciso di far tornare indietro l’orologio della storia in Myanmar. Le riforme ottenute in 30 anni cancellate in un giorno. Mi permetto di fare un bilancio, ciò che rimane di questo anno è: la violenza vince. L’unica cosa positiva è l’aver visto fiorire un’inaspettata solidarietà spontanea fra la gente (senza distinzioni di razza e religione) e una ritrovata unità fra generazioni, che fino ad un anno fa avevano difficoltà a capirsi. Ma volendo guardare i fatti per come sono, non vedo speranza per questa gente.
Il dramma nel dramma è che, se non avessero conosciuto – anche se parzialmente – cos’è la libertà, forse oggi la loro depressione non sarebbe così palpabile. Questa situazione, a mio parere, è vissuta molto più pesantemente – direi a livello psicologico e sociale – nella parte centrale del paese, abitato dall’etnia dominante (Bama) perché si sentono – a ragione – traditi dai militari della loro etnia (l’appartenenza etnica qui ha un ruolo importante). Negli stati periferici (formalmente la Birmania è una repubblica federale) la gente vive da sempre una situazione di conflitto permanente con lo stato centrale (certo non a questi livelli), perciò forse il presente appare come l’ennesimo capitolo di una storia infinita.
L’altro dramma è che il popolo, quasi tutto buddista, si sente tradito dai capi dei grandi monasteri che, a differenza del passato, tacciono nonostante le casse dei monasteri siano state depredate. Il buddismo si è ridotto a essere una fede consolatoria. Ciò accade quando viene meno una capacità di giudizio sul presente. Le altre religioni, compresa quella cattolica, sono largamente minoritarie (1%) e, pur svolgendo un grande ruolo di sostegno ai bisogni della gente, non riescono a incidere. Invece questo potrebbe essere – drammaticamente – un momento di missionarietà concreta.
Il terrore imperversa. Le violenze non avvengono solo verso i leader dell’opposizione, ma verso tutta la popolazione. Senza distinzione di ceto sociale. La repressione usa ogni forma. Dai servizi segreti, in stile Stasi, alle forme più violente: pestaggi arbitrari, stupri, arresti, impossibilità alla difesa, condanne senza prove, torture, espropri, furti, persone scomparse, sparatorie per le strade dove si uccidono anche bambini, bombardamenti aerei e molto altro.
La resistenza è in ambasce: i leader dell’opposizione sono agli arresti o alla macchia con difficoltà a coordinarsi. Dopo il golpe sono nate forme di protesta spontanee, all’inizio pacifiche, poi – via via, inevitabilmente di fronte alle violenze dei militari – sono diventate violente (con armi artigianali), ma senza riuscire a dar l’impressione di poter cambiare la situazione. Nelle periferie si registrano azioni di contrasto ma, come ho avuto modo di scriverti, la domanda che mi pongo è sulla reale volontà dei capi delle milizie etniche di abbattere il regime o se non sia un semplice “gioco delle parti”, perché economicamente questa situazione consente loro ancora maggiori utili su attività criminose o paralegali. A ciò si aggiunga che, perdurando questo stato, riceveranno prebende da potenze estere, se non già in atto. Così si creano solo nuovi “signori della guerra” che – Afghanistan docet – possono poi rivoltarsi.
In ogni caso: la situazione ad oggi è che i militari controllano la parte centrale del paese, le milizie etniche le parti periferiche, dove i golpisti possono intervenire solo con l’aviazione. Insomma, la resistenza non riesce a vincere e i militari non possono perdere (pena l’esilio o la morte). Perciò è una guerra civile che durerà per anni.
E’ una situazione di stallo che – paradossalmente, tutto sommato – va bene a tutti i capi militari (siano essi golpisti o milizie etniche), ma non al popolo. Non vedo speranza. La diplomazia internazionale è interessata a temi ben più centrali (Ucraina, Kazakistan, Afghanistan) che non al nostro piccolo paese. Eppure il Myanmar ha un ruolo geostrategico decisivo: siamo la via d’accesso per la Cina all’oceano Indiano senza passare dallo stretto di Malacca, controllato dagli Usa.
E’ in atto un “Grande gioco”, un “Risiko” a livello mondiale. Gli Usa sono ancora sotto choc dopo la fuga da Kabul, mentre la Cina poggia su una struttura politica monolitica. Sono passati da Mao a Deng fino ad arrivare a Xi Jinping (presidente a vita!) senza stormir di fronde. Piazza Tienanmen appartiene al passato. Pechino ha una potenza demografica (la vera potenza), militare, economica, politica che non teme rivali. Ha saputo sfruttare a suo vantaggio la sciocca idea che, finite le divisioni ideologiche e aiutati dall’era di internet, si poteva pensare a un mercato globale con l’abbattimento di ogni dazio. Risultato: la Cina ha potuto competere con prezzi imparagonabili, per le diverse condizioni politiche e sindacali.
La Cina ora è la fabbrica del mondo. Dal chiodo al microchip. Le sue esportazioni sono cresciute a dismisura, la sua moneta è diventata potentissima, i suoi prodotti sono di basso prezzo ma di bassa qualità. Da un mero punto di vista geografico ha intorno a sé una platea di nazioni che la temono e ne hanno bisogno. Tutte con tassi di natalità imparagonabili a quelli occidentali. Ma non solo: forti di una moneta potente e di una stabilità politica che in Occidente si sognano (legati come sono alle elezioni, quasi sempre sfalsate fra i vari paesi), i cinesi hanno colonizzato l’Africa e parte del Sud America. Non nel senso tradizionale: a loro interessa solo il business, non esportare la democrazia. Ergo: la pax romana in versione 2.0.
A noi non rimane che la preghiera e sperimentare la vicinanza di Dio attraverso l’amicizia di altri uomini.
Un lettore dal Myanmar
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