Caro direttore,
è passato tempo dal nostro ultimo contatto. Vorrei aggiornarvi ma il dramma che viviamo è proprio questo: qua non cambia nulla. Solo e sempre terrore, paura, violenza e morte. L’esercito ha mano libera. Regna l’arbitrio: dal generale all’ultimo soldato semplice, ognuno per il potere che gli spetta, lo esercita nel modo più arbitrario che ritenga.
Il dramma nel dramma è che questo popolo aveva assaporato, dopo decenni di dittatura, un breve periodo di libertà e ora è terrorizzato dal dover nuovamente affrontare 30 anni di questo clima. Immaginate cosa vive questa gente! I giovani, fra tutti, sono quelli che mi fanno più pena. Le Università sono chiuse, non vengono più rilasciati passaporti. Sono chiusi, come tutti noi, in un’immensa prigione senza possibilità di costruire un futuro per sé e il Paese. Pensare di dover vivere per i prossimi decenni in un enorme gulag è roba da suicidio o depressione (che infatti galoppano).
Il quadro generale non è cambiato: l’esercito controlla le città ma non ciò che sia un metro fuori da esse. Di lì in poi, siamo in quello che i romani descrivevano sulle antiche mappe con “hic sunt leones”.
Questo non deve far pensare che la vita nelle campagne sia meglio della città. Le condizioni alimentari e igieniche sono drammatiche. Manca tutto. Inoltre tutti i villaggi vivono nel terrore di raid da parte dell’esercito che colpisce prima con mezzi pesanti, bombardamenti e aviazione, per poi penetrare con truppe di terra e ritrarsi dopo aver ucciso, violentato, bruciato case, capanne, luoghi di culto e raccolti. Queste azioni sono estremamente efferate e senza limiti. La lista dei villaggi distrutti sarebbe infinita, soprattutto nelle regioni di Mandalay, Sagain e aree delle minoranze etniche.
Il tutto ricorda quanto accadde in Italia nelle tante stragi naziste nella seconda guerra mondiale. Ma immagino che sia anche quanto accade oggi in Ucraina: solo che lì c’è l’attenzione dei media. Questo cambia molto: almeno la violenza, da qualunque parte provenga, potrà avere memoria.
La gente, senza distinzione di razza o religione, ha creato forme di sostegno reciproco, pur con i poveri e pochi mezzi a disposizione. Ad esempio: in ambito cattolico, i seminari, che sono chiusi come le università, sono diventati centri di accoglienza, le chiese diventano ospedali da campo (qua nel senso letterale del termine), la Caritas fa il possibile. Drammaticamente questo è un momento dove ciascuno di noi è chiamato a una testimonianza. Non può essere delegata ad altri.
A questo popolo non fa certo difetto lo spirito di carità ma in questi giorni ho maturato una considerazione che forse non è politically correct: senza la coscienza di un Dio presente in ciascuno di noi, manca di un “quid”. È evidente che ci si possa aiutare per il solo fatto di essere uomini, ma se non riconosco la sacralità della persona umana, il rispetto della vita altrui è solo pura convenzione. Come dimostrano drammaticamente gli eccidi di cui vi ho raccontato.
In ogni caso: l’esito della guerra è già scritto. Proseguirà per anni. Il fatto è che tutto ciò sembra andare bene ai 4 grandi: è una guerra guerreggiata ove anche le spese militari cadono “a fagiolo” per tutti. E tutti fanno affari con tutti, depredando il Paese e non solo con la vendita di armi ma anche con droga, pietre preziose, legname, petrolio.
Le cose sono chiare: ai generali interessa solo incamerare quanto più possibile dalla vendita delle risorse del Paese, trasferire i profitti nei loro conti correnti privati a Singapore e poi, nel caso, fuggire. La storia di questo Paese e situazioni analoghe conduce a questa conclusione. Perché le alternative sono solo due: o a un colpo di stato segue un altro colpo di stato o il ritorno alla democrazia. Perciò non c’è un progetto sul Paese. Per essere tale dovrebbe coinvolgere la popolazione: si dovrebbe avviare quel percorso di democratizzazione proposto da Aug San Su Ky. Ma questa è stata proprio la ragione del golpe perché contrastava con i privilegi dell’esercito.
La storia della Birmania, diciamocelo, in realtà viene decisa altrove: prevarrà la volontà di controllo del Grande Vicino o la volontà occidentale di non lasciare campo libero in tal senso?
Pongo una domanda: se è vero che al Grande Vicino è indifferente chi comandi purchè possa perseguire le sue finalità (le dichiarazioni ufficiali parlano in tal senso), cosa impedisce la restaurazione di un governo democratico?
(Un lettore del Myanmar)
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