Caro direttore,
come promesso, ti aggiorno sulle opinioni scaturite tra la gente dopo le condanne di Aung San Suu Kyi e del presidente. Tutti i feedback sono accomunati da un dato: una soluzione diversa era impensabile. Impensabile, cioè, che “i cattivi” facessero un dietrofront così palese e l’assolvessero. Ma pur concordi a livello razionale, una volta messe su un piano emotivo, le reazioni sono le più svariate.



C’è chi cede alla rabbia; c’è chi ragiona e ne legge le implicazioni (quelle da me descritte nella scorsa lettera); c’è chi le legge come un colpo pesante, ma non definitivo alla possibilità di trovare una soluzione allo status quo; c’è invece chi è caduto in uno stato di depressione (comprensibile).

Ma qui, drammaticamente, non c’è tempo per filosofare. Purtroppo la cronaca di questi giorni non dà tregua. Nuovi eventi drammatici, accaduti a Mandalay, ci ributtano sulla tragica realtà: ad essere colpiti non sono solo i leader, ma anche la gente, addirittura i bambini.



Racconto i fatti così come mi giungono da quella città. Mandalay è la capitale culturale della Birmania, il cuore della vita del paese (direi un mix tra Milano e Firenze). A Mandalay, la sera di lunedì 6 dicembre, due ragazzi su un motorino hanno lanciato una bomba molotov verso gli uffici amministrativi della municipalità di Chanmyathazi. I militari di guardia hanno reagito sparando all’impazzata ad altezza d’uomo. Il risultato drammatico è che una bimba di 5 anni è morta. La bimba era intorno al baracchino ambulante gestito dalla mamma e parcheggiato in quel momento nei pressi di quegli uffici per la vendita di bettel. Il bettel è uno stimolante che storicamente i birmani masticano per sopportare la fame e la fatica. Consente, per esempio, ai conduttori di risciò, di riuscire a pedalare tutto il giorno con carichi sovrumani anche con questa calura e un’alimentazione inadeguata. Il risultato è che ci sono uomini che a 40 anni sono letteralmente finiti.



Ciò che indigna è una considerazione che non sfugge a nessuno: non si tratta di un caso singolo. Di una disgrazia che può accadere in un conflitto a fuoco. C’è una volontà di violenza, di luciferina determinazione che non guarda in faccia nessuno. Nel senso letterale del termine.

Perché questa bimba, in 10 mesi, è la terza morta fra i bambini di Mandalay. E sono 100 i bambini tra i 3 e 10 anni morti in tutta la Birmania per sparatorie.

Sì, si spara senza pietà. Senza ritegno e senza riguardo. Ripeto: non si tratta di un caso isolato. Cento bambini morti nelle sparatorie significa che si spara con la piena determinazione di uccidere: che si tratti di manifestanti o bambini. Questo è drammatico. Perché – se è pur vero che à la guerre comme à la guerre – ci sono dei limiti. E l’unica colpa di questi bambini è di essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato, essere a fianco dei loro genitori che svolgono un’attività di sussistenza: venditori ambulanti, pedalatori di risciò eccetera. Insomma, persone che vivono sulla strada all’ultimo gradino sociale. Spesso dormono anche lì. Perché non hanno altro luogo.

I tribunali internazionali per i crimini di questo tipo esistono ancora? Io credo che un’incriminazione presso la Corte dell’Aja non possa non spaventare i generali cattivi. E’ mica roba da nulla. Ma Amnesty & Co. esistono ancora? Se esistono mi paiono essere un po’ timidi: nei tg italiani, che solo a volte riesco a vedere, sento solo parlare di Giulio Regeni e Zaki.

Giusto per alleggerire i cuori, in questo quadro apocalittico vi segnalo che l’Onu ha deciso di non accettare i nuovi rappresentanti al Palazzo di Vetro designati dai nuovi governi di Afghanistan e Birmania. Perciò il nostro U Kyaw Moe Tun potrà rimanere e cercare di difendere i diritti umani calpestati dai golpisti.

Poca roba. Ma quando non si ha niente, si riesce a vedere sempre il bene.

Un lettore dal Myanmar

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI