Con il calare dell’emergenza Covid anche i partiti escono dal lockdown, ma devono fare i conti con uno scenario che non è più quello di febbraio. Soprattutto il governo del Paese basato sulla diarchia Conte-Zingaretti che all’inizio – in marzo – sembrava rafforzarsi ora sembra tornare in affanno.
L’alleanza tra Pd e M5s è nata come “fronte popolare antifascista” contro Salvini e con la paura delle elezioni che avrebbero visto vincente il centrodestra e quindi con un Quirinale nel 2022 non più di sinistra. Oggi però da un lato le leadership sia di Conte sia di Zingaretti escono dal lockdown indebolite e dall’altro il governo nato senza un chiaro accordo programmatico presenta evidenti criticità di fronte all’emergenza economica da affrontare.
Il premier ha dominato la scena durante il picco dell’epidemia: tutto decreti presidenziali e conferenze stampa in diretta tv a reti unificate. Però quando si è trovato di fronte la messa a fuoco di un piano di ripresa si è sgonfiato: ha liquidato molto sbrigativamente le proposte della commissione Colao, ha fatto disordinati Stati generali, è quindi venuto allo scoperto con un’unica proposta concreta, l’abbassamento dell’Iva, immediatamente bocciata sia dal suo ministro dell’Economia sia dai partiti alleati. Sul Mes non sa che cosa fare. Spera in un improbabile “anticipo” da fondi del bilancio 2021 ancora in discussione.
D’altra parte mentre all’inizio della crisi le Regioni erano sotto accusa e il ministro Boccia annunciava una riforma per centralizzare il Servizio sanitario, alla fine i “governatori” escono non ridimensionati, ma addirittura come candidati alla leadership nazionale: Zaia nel centro-destra e Bonaccini nel Pd.
La debolezza dell’intesa Conte-Zingaretti e del governo deriva dal fatto che la maggioranza è nata senza aver chiarito un solo punto programmatico ed ora il segretario del Pd lamenta che i dossier si accumulino senza accordo e che ormai nell’emergenza post-Covid abbiamo di fatto un “governo balneare” nel segno della “politica del rinvio” fino alle elezioni di fine settembre.
Per fermare Salvini, Zingaretti ha dato vita a un’alleanza con il M5s che senza un chiaro programma è diventata una giostra che gli è sfuggita di mano: il Pd insegue Di Maio che insegue Salvini, con il risultato di trovarsi di fronte il fantasma di una maggioranza parlamentare Lega-M5s-Meloni antieuropeista proprio sul Mes.
Anche l’obiettivo di Zingaretti di trovare un accordo contro il centrodestra alle Regionali ha come scoglio il fatto che il Pd ha già scelto i suoi candidati senza concordarli. Il segretario del Pd per fare un accordo con i 5 Stelle non può riproporre i presidenti che li hanno tenuti all’opposizione, ma Zingaretti non è in grado di “mollare” né De Luca né Emiliano. Anche se i 5 Stelle aderissero al compromesso il loro seguito elettorale è quindi un’incognita.
Altro elemento di debolezza di Zingaretti è, dopo aver dato priorità ai posti, il voler ora promuovere una “alleanza strategica” con il M5s secondo una direzione di marcia che già si è tradotta in un Pd che non critica più – ma introita da destra – antipolitica e populismo nell’identità e nell’elettorato della sinistra italiana rendendo confusa l’alternativa al centro-destra.
La politica del rinvio deve poi fare i conti con l’Unione Europea, dove la Merkel ha assunto la presidenza di turno e sembra avere l’intenzione di non considerarla un incarico turistico. È vero che un’Italia debole è un “boccone” appetibile, ma troppo debole rischia di essere un handicap per l’intera Unione. La debolezza dell’Italia inoltre non è solo sotto l’aspetto della politica economica del governo Conte (e cioè l’uso delle risorse europee – sia a prestito sia a fondo perduto – come bonus e ancora senza un piano di investimenti e riforme). Ora si è aggiunta anche la debolezza della politica estera e cioè quella di un paese che è sempre più un “mondo a parte” rispetto al resto dell’Europa e più in generale dell’Occidente: unico negli accordi con la Cina, unico nel silenzio su Hong Kong, unico sull’appoggio al regime di Maduro.
Sempre più emerge anche la responsabilità del Quirinale, che sulla collocazione internazionale – da Giovanni Gronchi a Giorgio Napolitano – non è mai stato silente.
Mattarella ha preso posizione contro Salvini ministro dell’Interno, ma rimane silente su due campi in cui la Costituzione gli affida un ruolo esplicito e l’Italia appare chiaramente allo sbando. Da un lato c’è la giustizia con leggi di dubbia legittimità costituzionale e dove soprattutto non è più garantita l’autodisciplina che è il fondamento della sua indipendenza. Essere il presidente del Csm non significa essere “spettatore”. I “Commentari” della Carta – da Calamandrei del 1950 al più recente di Cassese del 2018 – sono molto chiari. Se nel 1994 c’era il “Parlamento degli inquisiti” che, indipendentemente dal volere della sua maggioranza, il Capo dello Stato sciolse, oggi c’è il “Csm degli inquisiti”. Dall’altro c’è la politica estera che vede l’Italia a fianco di dittature e in rottura con gli alleati occidentali democratici. E il dato di fatto è che Mattarella sta diventando – non a caso – il Presidente della Repubblica italiana meno “invitato” all’estero: non certo per mancanza di stima personale, ma per la crescente irrilevanza e inaffidabilità della politica estera italiana.