Qualche giorno fa se n’è andato Eugenio Scalfari. Quando fondò Repubblica era già una star del giornalismo nazionale per aver pubblicato sull’Espresso, nel 1967, documenti riservati sul cosiddetto “piano Solo”: cioè su una serie di eventi semi-misteriosi di tre anni prima.
Per Scalfari le carte di cui era venuto in possesso erano prove di un tentativo di svolta autoritaria ordito dal presidente della Repubblica Antonio Segni d’intesa con alti gradi militari, in particolare dei carabinieri e del Sifar, l’intelligence della Difesa. Querelati dal generale Giovanni De Lorenzo, Scalfari e il giornalista Lino Jannuzzi furono condannati in primo grado. Il direttore dell’Espresso dovette cercare un’affannosa uscita di sicurezza in Parlamento, facendosi candidare ed eleggere nelle liste Psi.
Fin da subito vi furono sospetti che la documentazione sul “piano Solo” fosse giunta all’Espresso da Umberto Federico D’Amato: il direttore dell’Ufficio affari riservati dell’Interno, il potente servizio segreto della Pubblica sicurezza. La congettura è giunta – rafforzata – fino ai giorni nostri: non manca di evocarla Giacomo Pacini nella recente La spia intoccabile, prima biografia storiografica di D’Amato. Del quale un fatto è tanto curioso quanto incontrovertibile: fu per lunghi anni collaboratore di prima fila sullo stesso Espresso per la gastronomia, la grande passione del superpoliziotto allevato fin dal 1944 dagli apparati d’intelligence statunitensi. Ma perché D’Amato avrebbe passato carte scottanti a Scalfari?
Una versione riduttiva – anche se non priva di riscontri verosimili – racconta di un classico regolamento di conti fra capi degli apparati di sicurezza civile e militare in una Repubblica democratica non ancora maggiorenne, ancora non recisa dal ventennio fascista e già investita dalle rivalità fra i “servizi” della superpotenza americana. È del resto negli anni Sessanta che le guerre intestine fra Fbi e Cia investono mortalmente lo stesso presidente John Kennedy: come minimo non protetto a dovere a Dallas. Ma a proposito delle morti violente dei fratelli Kennedy e di Martin Luther King, quegli anni sono particolarmente agitati anche nei confini esterni dell’impero americano, fra Guerre fredde e Nuove frontiere.
In Italia matura la svolta dal centrismo “iper-atlantico” postbellico al centrosinistra. Il presidente Segni – che lo oppone – è colto da un ictus dopo un concitato colloquio al Quirinale con il leader socialdemocratico Giuseppe Saragat (che gli succede pochi mesi dopo al Quirinale) e Aldo Moro, il “cavallo di razza” della Dc che ha impostato politicamente l’“apertura a sinistra” e che è in carica come primo premier di un esecutivo “di centrosinistra organico” (Moro viene rapito e poi assassinato dalle Brigate Rosse nel 1978, nei giorni del varo della solidarietà nazionale con il Pci non più all’opposizione).
Ricapitolando: nell’estate 1964 qualcosa di rilevante accade sicuramente nella vita istituzionale della democrazia italiana. I fari del sistema-media si accendono però solo dopo tre anni, articolando alcuni snodi della vicenda (anche se certamente non tutti). È comunque – con alta verosimiglianza – un alto burocrate dei servizi di sicurezza a pilotare tempi, modi, contenuti e obiettivi di un leak dirompente. In parte rispondendo a interessi propri, in parte intervenendo all’interno di dinamiche politiche (scoop dell’Espresso e processo Scalfari cadono nel conto alla rovescia verso le elezioni 1968 e all’inizio di un biennio tempestoso nelle università e nelle fabbriche).
La narrazione pubblica registra tuttora una grande vittoria del “giornalismo democratico” contro le proverbiali “forze oscure della reazione in agguato”. Più in generale, può essere datato allora il mito granitico del centrosinistra formula unica e imprescindibile per il “buon governo” del Paese: concreta realizzazione della “Repubblica nata dalla Resistenza”, con il Pd odierno “partito unico” auto-legittimato a lanciare fatwe di “neofascismo”.
Non diversamente, pochi anni dopo, si srotola negli Stati Uniti la saga del Watergate: con due giovani reporter del Washington Post che – sotto i riflettori del proscenio mediatico – abbattono “Golia” Nixon, il presidente repubblicano arci-odiato dall’establishment “liberal” orfano del mito di Kennedy. Ma neppure Bob Woodward e Carl Bernstein possono evitare di riconoscere – da subito – il loro debito essenziale verso “Gola Profonda”. Dietro un alone romantico e leggendario fin da allora il sospettato è il vicedirettore dell’Fbi Mark Felt: che lo ammetterà solo 33 anni dopo.
Nel 1972 la polizia federale è in piena bufera dopo la scomparsa del fondatore Edgar Hoover, capo dei G-men per quasi mezzo secolo. Nixon – che è dapprima sceso a patti con il mefistofelico Hoover – tenta di pilotarne a proprio vantaggio la complicatissima successione, mentre è in corso la campagna presidenziale, con il leader repubblicano proiettato verso la rielezione. La famosa “effrazione” agli uffici del Partito democratico avviene un mese dopo la morte di Hoover. L’inchiesta del Washington Post comincia subito, potendo contare fin dapprincipio sui leak di Felt, il più alto presidio interno al Bureau sul caso Watergate. Due anni dopo Nixon è costretto alle dimissioni. Quando Felt, 91enne, “confessa” di essere stato la fonte decisiva dell’inchiesta Watergate, rafforza la verosimiglianza di fuga-manipolazione delle notizie sul “dem” Washington Post come manovra di autodifesa d’apparato dell’Fbi in un passaggio critico.
Al cuore dello scontro fra i vecchi federali e politici di Washington (tutti) emerge il destino del gigantesco archivio segreto con cui Hoover aveva esercitato poteri ricattatori sull’intera classe dirigente statunitense. L’archivio non viene mai trovato e di una cosa tutti sono certi: non è mai stato distrutto.
Anche l’archivio di D’Amato viene rimosso in circostanze mai chiarite dalla sua abitazione privata poco dopo la sua scomparsa, a metà degli anni 90. Migliaia di fascicoli riaffiorano poi in un deposito abbandonato nella periferia romana. Ma non ci sono quelli relativi alla strage di Piazza Fontana e al terrorismo nero. I grandi 007 sanno sempre cosa far giungere a quali giornali, quando e come. E cosa no, talora mai.
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