Caterina Potenzoni, medico anestesista di Varese, uno dei centri più colpiti dalla seconda ondata della pandemia, ci racconta la sua esperienza in ospedale, le storie dal reparto, il rapporto quotidiano di confronto e supporto con i colleghi e con i pazienti. E quell’attenzione rigorosa al presente che, sola, permette di andare avanti.



Com’è oggi la giornata tipo in ospedale?

Inizia la mattina con le consegne, ci passiamo le informazioni sui pazienti che stiamo seguendo di giorno in giorno. Al di fuori della terapia intensiva abbiamo diversi reparti dedicati ai pazienti Covid che hanno bisogno di ventilazione non invasiva. In tanti colleghi siamo impegnati su questi reparti, in tre di notte, una decina durante il giorno. Ci distribuiamo nei vari reparti mentre altre persone portano avanti l’attività di sala operatoria urgente. Dopo aver preso le consegne si attenzionano i malati più critici che potrebbero richiedere un trasferimento in terapia intensiva.



E poi?

Ci si confronta coi medici di reparto, internisti supportati da chirurghi e medici di altre specialità. In seguito si chiede anche agli infermieri come vanno le cose, ci si barda: maschera, camice e tutto il resto, e si entra.

Cosa vedete?

Iniziamo il giro dei reparti con i malati non intubati, che però hanno bisogno di un’assistenza rianimatoria più lieve, hanno il casco da CPAP o la maschera per l’ossigeno. 

Quali sono gli stati d’animo dei malati?

Le reazioni sono le più disparate, c’è tanta paura. Se riusciamo, decidiamo di portare il malato in terapia intensiva quando è ancora tendenzialmente cosciente. La decisione viene presa in base a dei criteri: l’emogasanalisi, il quadro respiratorio, il quadro radiologico. Si fanno tac sui malati che sono stati attenzionati e si decide.



Avete il tempo di comunicare al malato il trasferimento in terapia intensiva?

Spesso si ha il tempo di dirlo al malato e prepararlo, perché non sempre il posto è subito disponibile in terapia intensiva. Ci è capitato di far fare la telefonata a casa prima del trasferimento, queste accortezze cerchiamo di averle dove è possibile.

Ma non è sempre possibile.

No, certo il peggioramento delle condizioni non è sempre repentino quindi a volte si riesce a preparare il parente a casa, altre volte il paziente non è nemmeno in grado di telefonare e quindi è il medico che fa la telefonata, ma nei reparti c’è questa attenzione.

Anche questo è parte del vostro lavoro?

Assolutamente sì, mi è rimasto il ricordo di un signore che ho portato in terapia intensiva nella prima ondata. Ho ancora in mente questa scena, lo chiamava la compagna, lui forse non è riuscito nemmeno a rispondere, comunque stavamo entrando e non prendeva bene la linea, alla fine non sono riusciti a parlare e lui è deceduto qualche giorno dopo.

Esperienze che vi segnano, immagino.

Eccome. Sentivo ieri dei colleghi che sono entrati da un paziente e il carico emotivo era tale per cui si sono messi a piangere insieme a lui. Tra colleghi però ci si sta dando una mano, anche nel decidere come procedere con la terapia e a volte anche con la sua sospensione.

Sospensione perché?

Se dopo due settimane di terapia col casco CPAP il paziente non progredisce né regredisce e inizia a essere soporoso e incosciente si sospende il casco e si lascia solo l’ossigeno, perché non cambierebbe l’iter.

Vi trovate a prendere continue decisioni?

Sì, non c’è un giorno uguale all’altro, non c’è un paziente uguale all’altro, non c’è un collega uguale a un altro.

Pensa mai a quando finirà tutto questo?

Mai. Mi sembra di perder tempo a fermarmi a pensare, mi sembra impegnativo ma non protettivo pensarci, perché non è in mano nostra. Mi sembra più interessante vivere l’istante e pensare a quello che sto facendo, non ce la faccio proprio a immaginare la fine, non ce la faccio.

Nemmeno tra la prima e la seconda ondata c’è stato un momento di sollievo?

Tra la prima e la seconda ondata non dico che eravamo tornati ai ritmi pre-Covid ma sicuramente il clima era diverso, era più tranquillo. Adesso per quel che riguarda Varese è ancora peggio rispetto alla prima ondata.

Peggio da che punto di vista?

Il carico di persone è sicuramente maggiore. Ricordiamoci che non c’è stato un periodo Covid-free tra prima e seconda ondata e quindi nemmeno una possibilità di ripresa delle energie.

Siete stanchi?

Sì, quello sì.

Riesce a ricordare com’era il suo lavoro prima che accadesse tutto ciò?

Noi siamo stati completamente sconvolti. Come servizio copriamo anche le urgenze rianimatorie nei reparti: arresti, insufficienze respiratorie. Io però di base sono anestesista e quindi il mio lavoro è accanto al chirurgo, le 6-8 ore in sala operatoria. Ora la sala operatoria la si vede solo nelle urgenze, che possono essere anche urgenze Covid o comunque legate a casi sospetti. Anche in sala operatoria si entra sempre bardati. Il mio lavoro come anestesista è un lavoro di équipe, mi manca quel clima. Ribadisco, anche nelle decisioni sui singoli pazienti nei reparti Covid non siamo mai da soli, perché comunque ci si dà una mano tra colleghi, però è diverso.

E nel rapporto col paziente cosa è cambiato?

Non sempre rivedi lo stesso paziente, è tutta una corsa, anche se cerchiamo di tornare almeno per qualche giorno nello stesso reparto così da avere il polso della situazione sui pazienti.

E il rapporto fra i pazienti quanto aiuta, quanto conta il sostegno reciproco nell’affrontare la malattia, e quanto è possibile manifestarlo questo sostegno?

Ci sono state diverse relazioni amicali nate fra i pazienti, mi viene in mente un signore che dava una mano a un vicino di letto negli spostamenti, avevano anche ingegnato un modo per accendere le luci perché uno dei due portava il casco CPAP e da solo non ci riusciva. Poi in altri reparti ho visto persone congiunte entrare insieme, marito e moglie nella stessa camera.

Qual è la reazione del paziente all’ingresso in ospedale?

La prima reazione non la vedo perché quando i pazienti arrivano a me è già tardi. Sicuramente c’è paura, non ci si capacita su dove si è preso il virus.

Voi vi sentite sicuri adesso?

Noi siamo esposti ma usando i mezzi di protezione finora è andato tutto bene, abbiamo avuto un paio di casi ma arrivati da fuori, colleghi che si sono contagiati in famiglia. Noi siamo buttati in prima linea, ma protetti.

È faticoso lavorare così bardati?

Alla mascherina eravamo già abituati ma ora è un’altra cosa: visiera, occhialini, doppio paio di guanti per fare cose che già è difficile fare con un solo paio. Comunque non ci si tira indietro, anche perché non ci sono alternative.

E si guarda al presente.

È la cosa più importante. Guardo al presente, è l’unica cosa che mi permette di lavorare, altrimenti entrerei al lavoro sconfitta e uscirei sconfitta.

(Emanuela Giacca)

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