Con don Giovanni Musazzi, sacerdote della Fraternità sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo e dal novembre 2018 cappellano della Cappellania “Madonna della Salute” nell’Ospedale “Luigi Sacco” di Milano, avevamo parlato lo scorso marzo, quando la pandemia di Covid-19 stava assumendo proporzioni di giorno in giorno più massicce. Allora ci aveva raccontato della grande fatica del personale sanitario, messo a dura prova con turni di 16 ore, ma anche del grande sacrificio per aiutare le persone malate senza lamentarsi mai. Oggi che siamo davanti a una nuova ondata devastante del virus, don Musazzi ci dice che il personale sanitario è messo nuovamente alla prova. “Senza sapere quando finirà tutto questo, c’è coscienza di essere davanti a un sacrificio già vissuto”.
Abbiamo vissuto fino a ieri con l’illusione che dopo il lockdown la guerra al virus fosse finita, forse per colpa anche di tanti messaggi fuorvianti che hanno offuscato la coscienza della realtà. Lei che è a contatto con le strutture sanitarie e i malati, che sentore aveva? Presagiva che saremmo tornati alla situazione di marzo-aprile?
Medici, amici e infettivologi con cui sono in contatto avevano la certezza che sarebbe tornata l’epidemia. Non potevano saperne i numeri né l’entità, ma sapevano che sarebbe successo qualcosa, era scontato, vista la grave imprudenza con cui si è vissuto nelle ultime settimane.
Cosa intende dire?
Una imprudenza non solo negli atteggiamenti, una imprudenza mentale. Quell’atteggiamento che ti fa pensare “ma sì, è morto qualcuno ma la cosa non mi tocca, non lo conoscevo”. Adesso l’atteggiamento è non parlarne. Si dice: va bene la gente si ammala, ma è sempre successo. Non è passato il concetto che invece questo virus è una cosa che tocca tutti. È stato esorcizzato. La mia impressione, e lo dico con dolore, è che si sia persa la compassione.
Domina il menefreghismo?
Si dice: ho già sofferto abbastanza, ho fatto il mio lockdown, ho rinunciato agli aperitivi e alla palestra, non voglio più saperne se ci sono altri che soffrono.
Se si scorrono i social, si nota come l’atteggiamento più comune sia quello del rancore contro qualcosa e qualcuno che ci impedisce di vivere la nostra vita, non ci lascia stare nella nostra bolla di tranquillità. Le risulta?
Questo succede perché si è visto che anestetizzarsi non serve. Ha funzionato per un po’, poi dall’estate è scoppiata l’euforia del siamo tutti liberi. Adesso il virus è tornato e abbiamo ricominciato ad anestetizzarci. Ma i numeri sono così alti che non ci si riesce più. Da qui nasce la rabbia. A mio parere, la voce più centrata che si è sentita è stata quella di Massimo Recalcati. Ha detto che quando c’è un lutto che non si vuole accettare, allora si fa una guerra.
Cioè?
Siccome c’è un lutto, il mondo non è più come prima. Dobbiamo accettare dei sacrifici che non vogliamo fare, domina una ragione basata sull’egoismo, da cui derivano rabbia e indignazione. Non c’è qualcuno con chi prendersela, e allora ognuno difende il suo orticello. Devo rinunciare all’aperitivo, al calcetto? Allora faccio la guerra per l’aperitivo e per il calcetto. Il problema è quello che ci sta dietro.
Questo virus ci mette davanti a una sfida: prendere coscienza della realtà, riconoscere che in quanto uomini siamo piccoli, ma forse questo non basta. Come uomo di chiesa e operatore della sanità che messaggio si sente di dare?
Nessuno si salva da solo. Invece nelle nostre grandi città domina una mentalità: io basto a me stesso. Faccio le mie cose e ne sono soddisfatto, gli altri si arrangino. Invece siamo davanti a una occasione di grave crisi che per chi l’accetta diventa una vera crisi personale. La vita ha bisogno di continui cambiamenti di rotta, deve essere reindirizzata continuamente. La nostra tendenza è invece deviare da noi stessi. Abbiamo già avuto un’occasione, se fossimo vissuti qualche secolo fa si potrebbe dire che ci è stata data l’occasione per convertirci e l’abbiamo sprecata alla grande. È tutto tornato come prima, non abbiamo imparato niente. Mi sento solo di dire ciò che ricordo sempre a me stesso: da soli non ci si salva. Non possiamo avere 100 amici su Facebook o 50 amici all’aperitivo? Allora scegliamole molto bene, le amicizie. Ci si salva attraverso una relazione, il vero criterio devono essere le relazioni che ho, cosa desidero da loro. Se voglio che siano al mio servizio, per il mio benessere personale, siamo finiti, perché il virus ha tolto tutto. Bastano poche relazioni che costruiscono la mia persona e mi obbligano a cambiare, allora sì che cambio direzione.
Viene in mente l’Italia del dopoguerra, quando un popolo unito ricostruì dalle macerie una nazione. Oggi invece questa realtà di popolo non esiste più, ognuno viaggia per conto suo, sopraffatto da insoddisfazione, solitudine e rancore. È un paragone che regge?
Ci sono due differenze: la guerra aveva dimostrato che il disastro lo avevamo fatto noi, avevamo cioè capito di essere stati cattivi. Oggi è una causa esterna, sconosciuta, a cui si dà la colpa: io sono buono e il virus disturba la mia vita. È invece purtroppo verissimo che non c’è più una realtà di popolo, perché il tessuto sociale di allora, che teneva insieme le famiglie nel sostenersi tra loro, veniva da una mentalità cristiana accettata e vissuta. Questa mentalità si è sgretolata 50-60 anni fa e adesso abbiamo tra le mani solo i cocci.
(Paolo Vites)