Un governo di unità nazionale, ma anche un continuo scontro tra fazioni, conferma la presenza, comunque, di problemi politici ancora da risolvere. E un popolo, racconta Christian Carlassare, vescovo della Diocesi di Bentiu, che vive tutti i giorni nella precarietà. Il Natale in Sud Sudan, soprattutto nelle aree più lontane e dimenticate, è comunque un segno di speranza, vissuto intensamente nelle famiglie, dalla povera gente di fede cristiana e proiettato su un futuro che, per ora, non sembra promettere grandi cambiamenti. Le chiese cristiane, insieme ai leader islamici, chiedono dialogo e riconciliazione: l’unica strada che può portare il Paese a risollevarsi.
Alluvioni, crisi economica, guerra nel vicino Sudan: la situazione in Sud Sudan è sempre più difficile?
Dopo 20 anni in Sud Sudan, trovo difficile dire quando la situazione del Paese sia favorevole o sconveniente. Anche nei momenti più felici, le condizioni di vita rimangono precarie per la grande maggioranza della popolazione. Le crisi, poi, di vario genere, che si susseguono, possono essere ritenute condizioni croniche. E la gente sembra essersi abituata a tutto questo, come fosse la normalità. La sazietà, la stabilità economica, la pace e la sicurezza sono privilegi di pochi. Per molti, la normalità è il contrario di tutto questo.
In alcune zone, come a Tombura, si segnalano anche attacchi a chiese cristiane. C’è una violenza anche “confessionale” contro certe religioni?
Non credo che questa sia una situazione tipica del Sud Sudan. La popolazione è molto tollerante e rispettosa verso ogni religione, soprattutto quella cristiana. Non so collocare questo fenomeno verificatosi nella zona di Tombura, come anche la sparizione di un sacerdote mentre andava a far visita ad alcune cappelle. Penso siano eventi legati alla frustrazione di alcuni gruppi sociali emarginati, che cercano di rivendicare attenzione in realtà dove le istituzioni non sono al servizio di tutti, specie dei più poveri. Parlando però con il vescovo di Tombura-Yambio, ho sentito del pericolo che gruppi islamisti stranieri, entrati in Sud Sudan illegalmente, possano trovare base proprio in quel territorio, dove la foresta equatoriale potrebbe coprire le loro operazioni.
Come vive la gente oggi in Sud Sudan? Che realtà deve affrontare quotidianamente?
Da alcuni mesi mi sono spostato nella nuova diocesi di Bentiu. Questa parte di popolazione è certamente tra le più emarginate e povere del Paese. La città di Bentiu è stata devastata dal conflitto (2013-19). La maggioranza della popolazione vive nel campo sfollati di Rubkona, città gemella di Bentiu, che sta a nord del Fiume delle Gazzelle (affluente del Nilo). Il campo ospita circa 140mila persone, che vivono completamente dipendenti dall’aiuto umanitario. Bentiu sta gradualmente acquistando popolazione da quanti sono stati sfollati dall’alluvione degli ultimi quattro anni. Stanno costruendo i loro rifugi con materiale di recupero, perché il materiale edile risulta troppo costoso. Nei villaggi, la popolazione non è riuscita a coltivare, e molto bestiame è morto a causa dell’inondazione. La miseria è rampante e la popolazione vive in una costante condizione di vulnerabilità. Le agenzie dell’ONU riferiscono che il 90% della popolazione è sfollata. E, in seguito al conflitto in Sudan, l’influsso di rifugiati sudanesi, soprattutto di etnia Nuba, è aumentato. Si contano 130mila rifugiati registrati nei tre campi di Yida, Ajuong-thok e Pamir, nella regione amministrativa chiamata Rueng.
Il Sud Sudan è un Paese giovane. È riuscito a trovare un equilibrio dal punto di vista politico o anche nelle istituzioni prevalgono le divisioni?
Ha trovato un equilibrio che però non sta dando giustizia alla popolazione, che non ha voce. Nonostante l’accordo R-ARCSS, il Paese non è veramente in pace. Anche se non si registrano scontri tra i principali gruppi armati, in varie parti del Paese si sente di violenze legate a conflitti locali. Vengono descritti come scontri locali perché interessano piccoli gruppi di diversa etnia e sono spesso legati all’accesso ad alcune risorse del territorio. Ma le cause non sono accidentali: di fatto, sono collegate alle dinamiche politiche nazionali. Mentre il Paese ha apparentemente un governo transitorio di unità nazionale, rimane una soggiacente lotta tra diverse fazioni e c’è poca cooperazione fra loro.
Ciascuna fazione lavora solo per i propri interessi piuttosto che per il bene della nazione e dei cittadini?
Sì. Il procrastinare delle elezioni può essere anche un indice di questo. Erano previste per dicembre 2024, ma sono state spostate a dicembre 2026. Non è certamente facile preparare il Paese alle elezioni, ma è un esercizio necessario per far gradualmente crescere la coscienza democratica dei cittadini. I leader religiosi sudsudanesi hanno espresso disappunto per questa estensione del governo di unità nazionale. Quello che ora più conta saranno i passi che si faranno verso le prossime elezioni con la coscienza che nessun risultato delle urne potrà davvero risolvere tutti i problemi. Sarà il processo ad aver contribuito alla formazione delle coscienze dei cittadini e alla costruzione della nazione.
In questo contesto cosa sta cercando di fare la comunità cristiana? Come sono i rapporti con le altre confessioni religiose?
Le chiese cristiane, insieme ai leader islamici, chiedono dialogo e riconciliazione. Senza un dialogo nazionale indipendente e a tutto campo, non si supereranno mai i pregiudizi e le narrative negative che contrappongono i diversi gruppi etnici. Senza incontro, le ferite che la popolazione di ciascun gruppo etnico porta, a causa delle ingiustizie e violenze subite, rimarranno aperte con la possibilità di infettarsi in ogni momento, rendendo la guarigione sempre più difficile. Senza dialogo inclusivo, alcuni gruppi continueranno a manipolare le comunità locali e a dividerle per dominare ed esercitare il potere su di esse. Quindi non basta un dialogo formale compiuto da un gruppo limitato di persone in rappresentanza delle altre. È necessario, nel Paese, un atteggiamento di ascolto, una vera e propria educazione alla conoscenza reciproca per individuare un bene che sia comune e che appartenga a tutta la popolazione. Il governo deve essere progressivamente capace di offrire pari opportunità e sviluppo a tutte le comunità del Paese, dando attenzione ai gruppi più svantaggiati e vulnerabili.
Anche in uno scenario difficile come questo è arrivato il Natale. Come lo avete preparato?
Io sono appena rientrato da due settimane di visite a comunità cristiane nel territorio Dinka della nostra diocesi. Gran parte dei villaggi della nostra diocesi sono molto isolati e la gente vive in grande semplicità, senza avere accesso a servizi. È una realtà che ci fa capire quanto il Natale sia la scelta di Dio per i poveri, i semplici, i lontani. Non si fa tanto Natale nei centri di potere, ma nelle famiglie, nella quotidianità, nell’assenza di mezzi e risposte proprie. A Bentiu viviamo quotidianamente la precarietà.
Che speranza può portare questa festa cristiana in un contesto così complicato?
È in questa povertà che il Signore Gesù si fa bambino indifeso. Ogni giorno un gran numero di giovani è venuto in parrocchia per prepararsi alle liturgie del Natale con i canti e i balli. Ho visto tanta attesa del Signore. Ora c’è tanta attesa anche per il nuovo anno, per quello che verrà in questa nuova diocesi, dalle tante speranze, nell’anno in cui si celebra il centenario di fondazione della prima stazione missionaria nell’allora Yoanyang (oggi Rubkona). Una missione intitolata alla Madonna del Santo Rosario. Di quella missione non rimangono che le rovine dopo che fu abbandonata nel 1964. Ma su quelle rovine si fonda la comunità cattolica odierna, che mostra una fede umile ma resiliente, con una vitalità che promette bene e fa sperare in un futuro più umano e fraterno.
(Paolo Rossetti)
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