La povertà, un’economia senza investimenti, la siccità, le lotte fra etnie e fazioni politiche diverse, la difficoltà a garantire elezioni degne di questo nome. La lista dei problemi del Sud Sudan è lunga. A questi si aggiungono i riflessi della guerra civile nel vicino Sudan tra le SAF del presidente provvisorio Al Burhan e le RSF di Hemetti, che portano gli sfollati a varcare il confine e hanno ripercussioni sulla produzione del petrolio. In questo contesto, racconta Christian Carlassare, già vescovo di Rumbek e ora mandato dal Papa nella diocesi di Bentiu, la Chiesa promuove la dignità umana attraverso le sue scuole, sostenendo piccole attività economiche. Con un’attenzione particolare per le donne: le ragazze vengono tenute a casa e spesso non possono studiare.
Dopo Rumbek la diocesi di Bentiu. Sono due realtà molto diverse?
Sì, nonostante le due regioni siano adiacenti. La diocesi di Rumbek è popolata da gente di etnia Dinka, e da minoranze etniche Bantu come i Bongo e i Beli, quella di Bentiu dall’etnia Nuer ma con una presenza importante di Dinka. Bentiu è stata colpita duramente dal conflitto 2013-2019: pur essendo zona di estrazione di petrolio c’è molta più povertà. Il 90% della popolazione è sfollata, non solo a causa del conflitto ma anche dell’inondazione che colpisce la regione ormai da quattro anni.
I cambiamenti climatici rimangono un fattore importante?
Anche la mano dell’uomo ha il suo peso, per la mancanza di intervento sul territorio e di infrastrutture. Vicino a Bentiu c’è il campo sfollati più grande del Sud Sudan con più di 100mila persone. Anche la realtà ecclesiale è molto diversa: le comunità cattoliche sono state fondate da laici catechisti, e si reggono sul loro impegno di fede e di servizio. Rumbek è una diocesi molto ben sviluppata e con una buona amministrazione, mentre a Bentiu va avviata.
Bentiu è vicino al confine con il Sudan: quanto incide la guerra civile che si combatte nel Paese vicino?
Bentiu confina con la regione sudanese dei Monti Nuba. I Nuba sono una popolazione nera che ha sempre sofferto sotto il governo sudanese. Pur dentro il Sudan ha trovato il modo di autogovernarsi sotto il controllo di una propria milizia. Il governo sudanese si è sempre opposto a questa autonomia attaccando e bombardando. Nel territorio di Bentiu proprio vicino al confine c’è un grosso campo rifugiati sudanesi, circa 50mila, quasi tutti Nuba, a Yida, presente da circa trent’anni. In questo conflitto i Nuba non si sono posizionati né con le forze governative, né con le RSF, e di fatto restano più collegati al Sud Sudan. C’è sempre stata un’alleanza tra gruppi armati del Sud Sudan e quelli Nuba. E la guerra in Sudan certamente permette alle milizie di trovare appoggi e armamenti.
C’è il pericolo che anche la guerra “passi il confine” e si estenda al Sud Sudan?
Il conflitto sudanese non è semplicemente una guerra tra due generali: l’esercito è inestricabilmente inserito nella vita economica del Paese. SAF e RSF hanno ciascuna legami con élite sudanesi che traggono vantaggio dal controllo su vari settori dell’economia. È un conflitto molto complesso che ha elementi economici, regionali, internazionali, etnici e religiosi. Il Sud Sudan non ha nulla da spartire, anche se la sua economia ne sta risentendo terribilmente poiché l’estrazione del petrolio è rallentata. In Sudan la gente è traumatizzata e incredula per il livello di violenza e odio. Mons. Tombe Trille, vescovo di El Obeid, ha lanciato un appello: “Finora non c’è nemmeno uno spiraglio di luce o di dialogo. Credo che i nostri leader non siano pronti per la pace. Senza dialogo il conflitto ha il sopravvento, e non ci può essere pace. È tempo di pensare al bene del popolo e della nazione”.
Qual è invece la situazione in Sud Sudan riguardo al processo di pace R-ARCSS (Agreement on the Resolution of the Conflict in South Sudan) e la preparazione alle elezioni?
Nonostante l’accordo R-ARCSS, il Sud Sudan non è veramente in pace. Anche se non si registrano scontri tra i principali gruppi armati, in molte parti del Paese ci sono violenze legate a conflitti locali, etnici, tra diversi clan o tribù, o legati all’accesso a risorse del territorio. Il Sud Sudan ha teoricamente un governo transitorio di unità nazionale, in pratica c’è una lotta tra le diverse fazioni del governo e dell’opposizione e c’è poca cooperazione fra loro. Purtroppo, le elezioni fanno parte di questa lotta per il potere. Il principale partito di governo vuole le elezioni. L’opposizione le posticiperebbe.
Ma il Paese è pronto a votare?
Le elezioni richiedono la demarcazione delle circoscrizioni elettorali, quindi un censimento, la registrazione degli elettori, dei partiti politici e dei candidati. Occorre pianificare la logistica del voto, come raggiungere tutti i distretti in un territorio vasto e povero di infrastrutture e comunicazioni, come garantire sicurezza e ordine, l’educazione civica degli elettori. Nulla di tutto questo è avvenuto. È difficile prevedere come sarà possibile votare in regioni dove la popolazione è pressoché tutta sfollata a causa anche degli allagamenti.
Ma si tratta di elezioni previste nell’accordo di pace del 2013. Un tassello importante.
Sono l’ultima tappa dell’accordo che include la ratificazione di una costituzione per ora transitoria, la riforma dell’esercito e della difesa, la riforma della giustizia, il dialogo nazionale e la riconciliazione. La maggior parte di queste riforme, però, non sono state fatte. È quindi difficile capire come si possano avere elezioni legittime quando mancano le condizioni previe. Al momento sono in atto trattative moderate dal presidente Ruto del Kenya con la partecipazione della Comunità di Sant’Egidio per cercare di uscire da questo stallo. I vescovi nella loro lettera pastorale hanno chiaramente detto che bisogna saper guardare oltre l’accordo di pace e le elezioni stesse. È necessario promuovere un serio dialogo nazionale indipendente dalle forze al governo ed élites militari, dove la comunità civile, i gruppi ecclesiali, gli anziani, le donne e i giovani possano parlare ed essere ascoltati.
La guerra in Sudan è causa di carestia e milioni di persone stanno morendo di fame: un tema che riguarda tutta la regione?
La guerra causa sempre povertà perché il tessuto sociale si spacca, le attività economiche si fermano o solo pochi traggono enormi vantaggi. E con l’insicurezza della guerra, l’agricoltura si ferma. Se poi aggiungiamo l’imprevedibilità del clima che rende le coltivazioni più difficili, il quadro si complica. In Sud Sudan la moneta continua a perdere valore perché non c’è lavoro, non c’è produzione locale, non c’è mercato. Mancano investimenti o ci sono grossi investimenti stranieri che portano a impossessarsi in modo improprio di grandi appezzamenti di terreno e probabilmente anche di risorse importanti. Mancano cooperative di lavoratori: contadini, allevatori pescatori, artigiani e costruttori, che rappresenterebbero la vera ricchezza del Paese.
Che ruolo ha la comunità cattolica e quali rapporti intrattiene con le altre confessioni religiose?
Abbiamo formato il consiglio delle Chiese per dialogare con il governo e promuovere il dialogo nella popolazione, ascoltando i gruppi più vulnerabili. Alla Chiesa viene riconosciuto il grande impegno nella scuola, perché offre una buona qualità di istruzione a tutti i ceti sociali. Purtroppo un milione e mezzo di bambini non possono frequentare. E le femmine vengono tenute a casa per le faccende domestiche. Una ragazza ha più probabilità di morire di parto che di completare le superiori. Le scuole diocesane danno loro la possibilità di finire gli studi. La promozione della donna è importante per le comunità cristiane: le donne formano piccole cooperative, si impegnano nell’agricoltura a partire da semplici orti dove coltivano verdure. In diocesi abbiamo appezzamenti dove vorremmo promuovere la coltivazione di cereali per rendere le comunità più autonome.
(Paolo Rossetti)
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