Una delle emergenze mondiali che la pandemia da coronavirus ha oscurato, facendola scomparire da telegiornali e carta stampata, è la situazione drammatica del Venezuela, che peggiora di giorno in giorno.

Solamente la cosiddetta crisi del Mar dei Caraibi sembra aver tirato fuori quell’emergenza dal cono d’ombra informativo, ma solo per qualche giorno e limitatamente ai lanci delle agenzie di stampa. Si tratta della crisi che ha visto contrapposte 5 petroliere iraniane cariche di 1,5 milioni di barili di benzina, inviate in soccorso a Maduro e scortate nell’ultimo tratto da navi venezuelane, alle portaerei statunitensi mandate da Trump per far rispettare l’embargo. Del resto, pur riguardando un approvvigionamento di benzina capace di garantire alcuni giorni di sopravvivenza all’esangue economia venezuelana, che già dalle riforme di Chavez conosce la chiusura delle proprie raffinerie, si è trattato di un braccio di ferro che, seppur con le dovute differenze, a molti ha ricordato la crisi di Cuba degli anni 60 e che poteva finire drammaticamente.



Un’annotazione è necessaria per far comprendere la particolarità della situazione: secondo diversi profughi venezuelani ora residenti in Italia, la benzina iraniana viene pagata con l’oro estratto nelle miniere del Sud del Paese, dove sono molto presenti i cinesi, in veste di esportatori del metallo prezioso.

Nel contempo, nel Paese sudamericano, dal quale sono fuggite centinaia di migliaia di persone e dove ancora vivono discendenti di italiani laggiù emigrati nel secondo dopoguerra, le cose stanno diventando, se possibile, sempre più difficili. E proprio da quei discendenti d’italiani arrivano testimonianze incredibili.



Eccone una: “La gente di qui sta soffrendo moltissime carenze, dalla benzina che manca, impedendo i trasporti e il commercio, al gas domestico, all’acqua e alla luce, tutti estremamente razionati. Frequentemente, per intere giornate l’energia elettrica non è disponibile, mentre l’acqua arriva solo qualche ora alla settimana. Il tutto, con conseguenze facilmente immaginabili soprattutto per gli abitanti delle grandi città, ma anche delle campagne”.

“La gente – aggiunge un’altra testimonianza – è alla fame e i prezzi sono da fantascienza; per una minima borsa della spesa ci vogliono quattro stipendi mensili e per acquistare qualsiasi cosa sono necessari milioni di bolivar. Perciò, la popolazione fa ricorso al baratto, mentre i più fortunati utilizzano dollari americani, oppure euro, anche se il governo li considera illegali. Maduro, per far fronte al disastro economico, ha dato vita a una moneta elettronica, chiamata petro, che, come richiama il nome, era legata al petrolio; ma, siccome l’oro nero, di cui il Paese è ricchissimo, non viene più estratto, l’iniziativa è fallita. Anche per questo motivo, la gente non ce la fa più ed è furiosa; le code per la benzina sono lunghe chilometri e chi, dopo ore di coda, arriva a far rifornimento, si ritrova al massimo a poter acquistare 30 o 40 litri di benzina. Così non può continuare. Ma, purtroppo, il peggio sembra non aver fine, perché nei giorni scorsi sono stati sospesi i servizi televisivi, su tutti i canali, così la gente è privata di qualsiasi informazione e si presuppone che presto toglieranno anche internet, l’unica possibilità di comunicare con l’estero”.



I profughi fuggiti in Italia, di cui non è possibile citare nomi e cognomi per motivi di sicurezza dei parenti rimasti in Venezuela, aggiungono che “la stessa emergenza del coronavirus è stata utilizzata nel tentativo di rafforzare Maduro, con l’introduzione dell’isolamento sociale alle prime avvisaglie, per poter controllare meglio gli oppositori. Ma, a un mese dall’inizio del lockdown, il virus si diffonde incontrollato e, pertanto, il suo prolungamento comporterà danni maggiori a un’economia già disastrata. Del resto, il sistema sanitario venezuelano non è in grado di affrontare l’epidemia, mentre le fasce più povere della popolazione sono alla continua disperata ricerca di generi di prima necessità, estendendo così i focolai”.

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