“Da un po’ di tempo incomincio ad apprezzare in particolare modo, nei dirigenti, la qualità di saper stare zitti, sentire quello che dicono gli altri e trarne profitto per il proprio lavoro”. A parlare così era Palmiro Togliatti (La politica culturale, Editori Riuniti, pag. 193) concludendo un’impegnativa discussione della commissione culturale del Pci nell’aprile del 1952. Parole sante, che andrebbero riascoltate più volte e con attenzione dai suoi nipotini di oggi, così frementi nel dichiarare cosa gli passa per la mente ai quattro venti.
Ad esempio, mi rimane sempre il dubbio se Massimo D’Alema le cose le dica sapendo che produrranno l’effetto contrario o semplicemente perché non si cura affatto delle conseguenze di quelle che evidentemente lui considera delle ovvietà.
Io propendo per la seconda ipotesi. Anche se molti – considerato il giudizio, diffuso quanto immotivato, sulla sua spietata abilità tattica – sospettano che l’ex presidente del Consiglio usi scientemente il suo potere di interdizione per impedire che le cose accadano, limitandosi ad auspicarle.
Negli auguri di buon anno rivolti ai militanti di Articolo 1, il movimento che ha contribuito a fondare con Bersani e Speranza, D’Alema si è cimentato a tal proposito su due temi apparentemente distinti. Da un lato si è espresso abbastanza nettamente contro l’ipotesi di elezione a presidente della Repubblica di Mario Draghi, sollevando un argomento molto caro ad una certa sinistra riguardo ai pericoli insiti in uno stravolgimento di fatto del ruolo del capo dello Stato, affidato non a una figura politica ma ad un’espressione della tecnostruttura della finanza europea. Dall’altro – rivolto principalmente ai suoi compagni di viaggio – il presidente di Italianieuropei ha invitato a considerare maturo il rientro in massa nel Pd, essendo venuto ormai meno il principale motivo dell’uscita, e cioè Renzi e il renzismo.
Per cercare di essere più convincente – nel caso che qualcuno non avesse capito bene – D’Alema ha usato la metafora della malattia (Renzi) e della guarigione (il Pd di Enrico Letta). Scelta che ovviamente ha sollevato le reazioni risentite di tutti, sia da parte di chi si è sentito trattare come un virus (per di più in piena pandemia) sia da parte di quelli che dovrebbero essere i guariti.
Il più netto di tutti è stato proprio Letta, che ha rivendicato con un tweet la giustezza di aver fondato il Pd e di non averlo mai abbandonato. Che poi non è del tutto vero, visto gli oltre 5 anni di esilio parigino a cui si è auto-condannato dopo la defenestrazione da capo del governo orchestrata proprio da Renzi.
Va anche detto che Letta in questo momento è il principale sponsor di Draghi presidente della Repubblica e sicuramente la sortita di D’Alema gli deve essere apparso un colpo basso. Sorprende non poco anche la presa di posizione di Gianni Cuperlo, in passato vicinissimo a D’Alema, ma che giudica sbagliate e offensive le argomentazioni usate dal suo ex datore di lavoro. Non poteva certo mancare all’appello il senatore Marcucci da Pistoia, che addirittura ha invocato l’indizione di un referendum tra gli iscritti per decidere se accettare o meno nel partito il rientro degli ex dalemiani.
Se si prova a leggere le dichiarazioni di D’Alema sulla base del risultato va comunque detto che probabilmente la regola dell’effetto contrario vale anche questa volta. Letta sembra sempre più ostinatamente orientato a spingere per Draghi presidente e ora per Speranza e compagni il rientro nel Pd non appare una passeggiata. Sorte malvagia, quella che colpisce gli ex leader della sinistra, odiati e derisi principalmente da quelli che, quando comandavano, li osannavano estasiati. Pensate a ciò che sta passando Tony Blair in Gran Bretagna ora che la Regina pensava di poterlo onorare con il cavalierato. La regola non vale ovviamente per i leader morti, soprattutto per quelli caduti in servizio: per loro invece ci sarà sempre un posto riservato nel cuore dei militanti della sinistra di tutto il mondo.
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