I giornali italiani sostengono che il governo di Mario Draghi ha assegnato tre ministeri a ciascuna delle tre correnti del Pd, segno che per tenere unito il partito in appoggio al nuovo esecutivo ogni corrente deve essere premiata separatamente. Nicola Zingaretti, segretario del partito, è fuori dal governo.

I Cinquestelle per restare uniti nell’appoggio a Draghi hanno dovuto far scendere in campo il loro guru Beppe Grillo, poi tenere un referendum nella piattaforma Rousseau (controllata da altro capo del Movimento, Davide Casaleggio). Al voto alle Camere i 36 dissidenti sono stati espulsi con fermezza. Fuori dalle Camere il leader storico M5s Alessandro Di Battista si agita molto, anche se dice di non volere creare un nuovo partito.



Insomma Pd e M5s appaiono estremamente spaccati al loro interno, con un solo chiaro elemento normalizzante per la maggioranza dei parlamentari: il sostegno a Draghi e l’opposizione allo scioglimento delle Camere.

Ciò significa che, forse quasi naturalmente, al Senato le rappresentanze di Pd, M5s e Leu (una volta parte della stessa formazione del Pd) si sono fuse. In tal modo essi rappresenteranno la singola maggiore forza di sostegno all’attuale esecutivo nella camera più delicata, il Senato appunto, dove il precedente governo Conte perse la maggioranza assoluta.



La scelta tattica ha un chiaro senso, ma forse dal punto di vista strategico non basta.

Alla caduta della dinastia mancese nel 1911 c’era una folla di formazioni tutte unite dall’opposizione alla vecchia monarchia. Il partito comunista arrivò relativamente tardi, nel 1921. Era un gruppo minuscolo con appoggi esterni minimi e ostilità interne enormi.

Essa tuttavia riuscì a vincere sì con un misto di astuzie tattiche, ma anche con un chiaro disegno strategico, la distribuzione della terra ai contadini, la politica di ogni rivolta cinese dal 200 a.C. ad oggi, come sa il Pd, erede in parte del vecchio Partito comunista italiano.



In maniera simile si mosse il partito Thai Rak Thai (Trt) di Taksin Shinawatra in Thailandia, come sa bene il dirigente del Pd Goffredo Bettini che in Thailandia ha risieduto per molto tempo. Dopo la crisi asiatica del 1997 Taksin raccolse circa il 20% dei voti alle elezioni del 1999. Era un successo enorme, ma il Trt non volle partecipare a governi di coalizione.

Nel 2001 ottenne la maggioranza assoluta, la prima volta per un partito nella storia democratica thailandese; quindi rapidamente lanciò una serie di riforme che fecero crescere il ceto medio creando una nuova borghesia fuori da Bangkok e trasformò le campagne thailandesi. Il successo di tali politiche ha radicato la forza ancora attuale di Taksin nel paese, nonostante che un golpe militare nel 2006 lo abbia costretto all’esilio ormai da quasi 15 anni.

Tutto questo significa che il successo politico arriva sulla base di una visione strategica su cui poi si fanno poi scelte tattiche. Nel caso del Pc cinese le scelte strategiche negli anni sono mutate, ma continuano a esserci grandi disegni di fondo.

Non è chiaro però dall’esterno quali siano i grandi disegni strategici di Pd o M5s uniti o separati che siano. Entrambi paiono nel mezzo di crisi molto profonde di idee. Il M5s, dopo gli afflati per l’onestà e contro il “poltronismo”, ora, almeno da fuori, non si capisce cosa voglia. C’è solo il mantenere le proprie posizioni di potere attuali, per un problema pratico, che è quello in sostanza di chi ha un lavoro e non lo vuole perdere.

Il Pd, storicamente diviso tra due anime – ex sinistra Dc ed ex Pci –, di fatto cerca di difendere il libero mercato ma anche di rappresentare la classe operaia.

Certo anche a destra non ci sono baluardi di idee robustissime. In tutto il mondo è in atto una crisi profonda delle vecchie ideologie di destra e sinistra che ci hanno accompagnato dalla Rivoluzione francese del 1789.

Ma forse per uscire da questa crisi occorrono riflessioni dense. Unirsi senza ripensamenti in realtà moltiplica semplicemente le fratture.

Oltre alle tre-quattro correnti del Pd ci saranno le tre-quattro correnti del M5s. Una formazione con una decina di gruppi con storie e origini diverse è la ricetta di una guerra civile. In Cina dopo il Grande Balzo in Avanti, nel 1957 con la mancanza di case le grandi ville nobiliari di Pechino vennero divise. Il numero delle persone magari era, almeno inizialmente, lo stesso di prima, ma l’organizzazione era totalmente diversa. Prima c’era una famiglia con rapporti e ideologie magari iniqui ma chiari al loro interno. Poi arrivarono tante famiglie e individui con odi reciproci antichi, costretti a convivere solo sulla base di forza e necessità insieme. Quelle case divennero teatro di liti infernali.

Forse è lo stesso con l’unione senza pensiero tra Pd e M5s. Unificarsi senza un processo profondo accelererà, non rallenterà i processi di disgregazione interni, con rischi di caos oggettivo nel paese. Questo potrebbe essere una perdita per la democrazia italiana, perché queste due formazioni, piaccia o non piaccia, sono parte della storia e dell’identità nazionale contemporanea.

Con la disgregazione in velocità di questi due partiti la nazione potrebbe sbandare e il governo Draghi potrebbe avere difficoltà a mantenere la rotta nei prossimi mesi.

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