Non è ufficiale, ma è praticamente ufficioso, le riserve sono sciolte: il capo del governo Mario Draghi appare chiaramente in corsa per il Quirinale. Inoltre il presidente attuale Sergio Mattarella, che si è opposto formalmente alla propria rielezione, è di fatto, se non proprio attivamente, il primo “elettore” del premier.
Draghi, che sta sconfiggendo la pandemia vaccinando tutti gli italiani, che presiede a una ripresa economica ignota da decenni, esaltato dalla stampa internazionale, dovrebbe essere infatti eletto di slancio.
Ma l’Italia è un paese ingrato. Colombo scoprì l’America per gli Spagnoli, Matteo Ricci per secoli è rimasto un punto di riferimento in Cina, ma è quasi sconosciuto in Italia. Del resto i Romani lo sapevano: nemo est propheta in patria.
Poi se l’Italia avesse dovuto fare delle scelte razionali e ragionevoli non sarebbe a questo punto. La regola è che la politica italiana ha logiche proprie diverse da quelle che segue il mondo.
Così il rischio di Draghi è quello di essere poi azzoppato davanti al traguardo. Infatti il parlamento è frantumato in mille pezzi. I partiti sono divisi per bande. I capi comandano manipoli di 30-60 voti, ma nessuno giura sulla fedeltà di ogni suo voto.
Draghi così candidato dovrebbe essere acclamato alla prima votazione, dove però serve una maggioranza di due terzi, quindi almeno 670, fatti circa mille i votanti tra Camera e Senato. Cioè nel parlamento attuale dovrebbero esserci almeno una quindicina di “capi manipolo” decisi a votare Draghi. Ma ci sono davvero? E manterranno la parola?
Molti dei grandi e piccoli gruppi non fanno troppi misteri di non amare Draghi. Le discussioni recenti sul fatto che mandare Draghi al Quirinale equivarrebbe ad aprire ad un governo presidenziale sono il fenomeno superficiale di malesseri molto più profondi.
Draghi è accusato di non parlare con i partiti, non ascoltarli, non fermarsi in quelle chiacchiere insieme utili e inutili che hanno fatto la trama della politica italiana negli ultimi decenni. Quindi tanti potrebbero non votarlo, al di là dei desideri del capogruppo o dei bisogni dell’Italia.
Questo alla fine è il parlamento che ha messo sull’altare “l’uno vale uno”, la versione casereccia della critica maoista delle università in Cina, per cui i giovani liceali era meglio mandarli in campagna a imparare dai contadini, e invece riempire gli atenei di agricoltori e operai con la quinta elementare.
Allora i neo-maoisti “de noantri” potranno davvero volere come presidente un signore che parla sette lingue e ha studiato e insegnato in mezzo mondo? In teoria è più facile che molti di questi, pensando di farsi i casi propri, onorino un contratto di vendita del proprio voto a qualcuno che gli promette un posto fisso da qualche parte.
Se accadesse, allora, che Draghi alla prima votazione viene candidato e bocciato, non decadrebbe solo come presidente della Repubblica ma nei fatti anche come presidente del Consiglio. Insieme al piano predisposto per mettere un capo del governo – uomo o donna – provvisorio a Palazzo Chigi.
A quel punto i mercati non la prenderebbero bene.
Per il paese sarebbe un dramma, ma lo sarebbe anche per i deputati che rimasti attaccati al loro scranno peggio di Checco Zalone, infischiandosene del resto? Non è chiaro, ma certo è chiaro che l’elezione di Draghi al Quirinale è lungi dall’essere una passeggiata.
Solo che se a questo punto, dopo tanta fanfara, Draghi non va al Quirinale, per la corsa al Quirinale si apre qualunque possibilità e si entra in un periodo molto confuso e buio. Per evitare questo, evidentemente, Mattarella si è fatto da parte.
Così, senza Mattarella e senza Draghi, nel mezzo di un piano di sviluppo tutto da attuare, con un’epidemia ancora non debellata e in un quadro internazionale sempre più confuso, l’Italia precipita in un grande rischio. Quindi noi, che avevamo candidato Draghi a Palazzo Chigi quasi due anni fa e non siamo stati sempre d’accordo con quello che ha fatto, a questo punto pensiamo: o Draghi o il caos.
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