Visto dall’Oriente, il nuovo governo italiano sembra un governo rashomon, l’ombra del potere, mentre il potere resta nell’ombra. Come rilevano tanti commentatori italiani, a cominciare dall’ottimo Stefano Folli, il governo è debole, perché i partiti non hanno voluto esporsi mettendo uomini forti in posti delicati, come se si aspettassero che il governo dopotutto non duri a lungo.



I tre posti principali ne sono una testimonianza. Il premier Giuseppe Conte è reduce da un oggettivo insuccesso di governo: doveva fare da mediatore tra Lega e M5s, ma il governo è caduto; il ministero degli Esteri è stato affidato a Luigi Di Maio, che pur volenteroso e studioso, la geografia potrebbe riuscire a non impararla in pochi giorni; infine, il ministro degli Interni è stato dato a una tecnica, bravissima pare, ma certo fuori dalle logiche politiche.



Alle loro spalle si stagliano quelli che hanno voluto questo governo. Ci sono i venerabili del M5s, Beppe Grillo e Davide Casaleggio, che hanno sostenuto Conte contro Di Maio e potrebbero avere un ruolo più attivo che in passato. E ci sono i grandi del Pd: Matteo Renzi ha aperto al nuovo governo e Nicola Zingaretti ha mobilitato tutto il partito, compresi i saggi Romano Prodi e Massimo D’Alema, a sostegno dell’esecutivo.

Quindi c’è il presidente Sergio Mattarella, che è evidentemente padrino dell’operazione. Per quanto debole, il governo è politico, quindi Mattarella è riuscito dove il suo predecessore Napolitano forse si è dovuto accontentare di un governo tecnico.



Dietro questi attori, poi, c’è forse un insieme di istanze che vengono dagli Usa, dalla Ue e dalla Chiesa, tutti preoccupati che l’ondata sovranista italiana della Lega di Matteo Salvini andasse fuori controllo, accendesse la fiamma dei ben più pericolosi sovranisti tedeschi e francesi e interferisse con il delicatissimo problema della Brexit.

Questa stratificazione di influenze, in qualche modo, si regge sulla debolezza del governo, motivo per cui, da una parte, l’esecutivo potrebbe reggere anche a lungo; dall’altra, però, se i fragili equilibri alle spalle cambiassero, l’esecutivo potrebbe anche cadere all’improvviso.

Resta il problema di fondo, che è il deficit di democrazia. Cioè il partito a maggioranza relativa di questo Parlamento con il 33% oggi forse non riuscirebbe a raccogliere un terzo di quei voti.

Inoltre, è vero che in teoria M5s e Pd sono entrambi di “sinistra”, quindi l’accordo dovrebbe essere giusto, e sicuramente lo era un anno fa. Ma in politica il tempo non è una variabile indipendente. In Cina, da tempi lontani, la politica giusta viene definita shi yu, pioggia che arriva al momento giusto, perché prima o dopo fa danni. In questo frattempo la polemica pubblica tra Pd e M5s è stata più che velenosa, e ora è arrivato un cambiamento che non ha dato conto di sé agli elettori.

Qui si annida la questione vera. La crisi ha eliminato per il momento Salvini, e forse gli renderà il suo futuro più difficile in mille modi, incluso un cambio della legge elettorale; d’accordo. Ma il problema è che questo governo ha approfondito lo iato tra Parlamento ed elettori, che è il cuore del problema attuale dell’Italia. Vota poco più del 50% degli aventi diritto, poi non votano 3 milioni di immigrati legali che in Italia pagano le tasse.

Questo si aggiunge alla sfiducia crescente degli italiani verso il loro paese. Da oltre dieci anni oramai ogni anno gli italiani investono all’estero oltre 50 miliardi di euro, e solo il 15% di loro compra buoni del tesoro italiano; i giapponesi posseggono oltre l’80% del loro debito pubblico. Due milioni di giovani preparati sono a lavorare all’estero e le famiglie che possono pensano a un futuro della loro prole fuori dai confini nazionali. Questo è molto peggio del crollo demografico, perché si fanno figli per mandarli fuori dal Paese. Gli italiani votano con i loro portafogli e i loro figli contro l’Italia. È in tale contesto che arriva questo accordo di governo, e bisogna chiedersi forse come al di là della contingenza questo accordo impatta su tali tendenze di lungo termine.

Oggi il cambiamento a 180 gradi di Pd e M5s non è passato attraverso alcun dibattito pubblico vero, né l’alleanza nuova è stata spiegata (mettere da parte i sovranisti, piaccia o non piaccia, è un’operazione che avrebbe potuto avere dignità di difesa). Tutto è passato in cavalleria dietro la giustificazione leguleia (e quindi in sostanza “imprecisa”) che la nostra è una democrazia parlamentare, che i partiti possono cambiare alleanze, eccetera.

Tutto formalmente vero, ma sostanzialmente? Un partito alle elezioni chiede un voto non in cambio di un pacco di pasta o un paio di scarpe, ma per un programma, e io, elettore, mi aspetto che il programma venga portato avanti. Poi il programma si può anche cambiare, ma me lo devi spiegare, argomentare e io lo devo accettare. Se cambi senza spiegazioni, è un imbroglio sostanziale, quindi io domani non ti voto più, anzi proprio non voto più, smetto di credere al processo democratico. Allora posso pensare che tanto vale un dittatore, e qui rispunta Salvini o chi per lui.

Inoltre, in altri tempi, cambi repentini sono avvenuti, come quello della Lega che passò dall’alleanza con FI alla sinistra, ma allora le istituzioni italiane erano più solide e il quadro internazionale molto più chiaro e non così pieno di ombre.

In altre parole, va bene questo governo per tutti i motivi contingenti, ma forse dobbiamo chiederci: si sta costruendo un’autostrada per una dittatura (in chiave moderna, per carità), in nome di una difesa formale delle regole democratiche e di un quadro internazionale traballante? È una domanda pesantissima e orrenda, e per questo, da tanto lontano, personalmente spero di sbagliare di grosso.

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