Taranto, la città che solo qualche anno fa cacciò le prospettive del suo futuro insieme agli investitori cinesi nel porto, ieri ha spento ogni speranza di un suo presente spingendo gli indiani di ArcelorMittal fuori dall’Ilva. Così migliaia di famiglie sono gettate sul lastrico, l’economia dell’intera provincia con mezzo milione di persone è in bilico, e si pianta una pietra tombale su ogni altra opportunità di investimenti in Italia.
In altri paesi il governo si sarebbe probabilmente dimesso. In Italia invece Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri che solo qualche mese fa, da allora ministro dello Sviluppo economico, aveva giurato sull’accordo Mittal, ieri giocava a fare il turista a Shanghai.
La cronaca succintamente è la seguente. La società indiana Mittal aveva comprato in linea di principio l’acciaieria di Taranto ma aveva chiesto una immunità giuridica per i danni ambientali imputati all’industria nelle passate gestioni. La procura avrebbe dato un termine, il 13 dicembre, per risanare i danni ambientali. Quindi senza immunità la Mittal si troverebbe il 13 dicembre a rispondere per danni ambientali compiuti nei decenni precedenti alla sua acquisizione.
Così Mittal ha annunciato il ritiro e circa 11mila addetti all’acciaieria più molte altre migliaia dell’indotto perdono il lavoro. Non è chiaro che cosa faranno loro oggi e cosa farà la città.
Questo pare il replay all’ennesima potenza del dramma passato. I cinesi di Evergreen (Taiwan) e di Hutchinson Wampoha (Hong Kong) agli inizi degli anni duemila avrebbero voluto trasformare Taranto nel più grande porto del Mediterraneo e d’Europa, ma i lavori minimi di adeguamento delle strutture che dovevano essere completati nel 2014, nel 2019 non sono ancora iniziati. I cinesi così sono da tempo emigrati al Pireo.
Ma quella forse era una scommessa complicata, il futuro forse è invisibile per chi è abituato solo a vedere il presente. Città, regione e governo centrale non si erano mai davvero convinti dell’idea del porto commerciale. Ma l’acciaieria è il presente, è l’1-2% del Pil italiano, Mittal significa l’India, la finanza inglese. Soprattutto vuol dire che se i cinesi non ci sono riusciti e gli indiani si ritirano, come si fa davvero ad attirare capitali dall’estero?
L’Italia poi è l’Italia: il governo, i ministri si spenderanno per promettere mari e monti a Mittal, forse si farà anche una norma super ad hoc, si troverà un codicillo per salvare capre e cavoli. Né sappiamo cosa faranno alla fine gli indiani.
Ma il disastro è già fatto: l’annuncio del ritiro è arrivato, quindi il messaggio di inaffidabilità dell’Italia è già passato. Questo è ciò che conta per gli investitori futuri. Se tra 24 o 48 ore il premier Giuseppe Conte riesce a mettere una pezza salva (forse) Taranto, ma peggiora ancora l’immagine del paese. Afferma: non fidatevi dell’Italia né quando dice “sì” e neppure quando dice “no”.
È la bancarotta del paese al di là delle responsabilità di Tizio o Caio. Poi da oggi già comincerà la caccia all’untore: la colpa è sua; no, è sua. L’Italia è l’Italia, tutti correranno a nascondersi e fare scaricabarile.
Ma il problema è che la politica non è un’aula di tribunale dove occorre dimostrare responsabilità civili o penali bene definite dal codice. In politica, come in guerra, la responsabilità è oggettiva: se la battaglia è persa a causa di scelte sbagliate, la responsabilità è di chi comanda, al di là delle sue migliori intenzioni.