Il dramma sulla formazione governo di questi giorni riguarderà gli equilibri internazionali, l’Europa la Brexit a fine ottobre, o l’elezione nel 2022 del presidente della Repubblica, ma si dipana tutto intorno allo psicodramma puramente romano sul possesso di fatto del Movimento 5 Stelle.

M5s attualmente è diviso in quattro-cinque leader di fatto (al di là di quello che ciascuno di essi possa dire in pubblico con formule più o meno leguleie). C’è Beppe Grillo, che è il leader carismatico e originario, poi c’è Davide Casaleggio, erede del fondatore e dell’azienda che gestisce la comunicazione del Movimento, poi c’è il leader dei parlamentari, Luigi Di Maio, che fino a ieri sembrava il capo politico, quindi c’è Giuseppe Conte, promosso da Grillo come presidente del Consiglio pentastellato, e infine c’è Di Battista, leader del Movimento di riserva.



Negli ultimi giorni Grillo e Casaleggio hanno evidentemente sostenuto Conte trascurando ambizioni ed esigenze di Di Maio. In altri tempi se i leader sostanziali preferivano Tizio o Caio ciò sarebbe bastato.

Ma nella gestione gassosa del Movimento Di Maio è capo di un’ampia pattuglia di parlamentari che hanno come unico obiettivo quello di governare finché possono e massimizzare questo loro passaggio di potere. Grillo e Casaleggio saranno i capi fuori dal Parlamento, ma nelle camere i voti dipendono da quei parlamentari e fin quando essi sono lì, sono loro padroni sostanziali del Movimento.



Il Conte bis consente a Di Maio e ai suoi di preventivare ancora tre anni e mezzo in Parlamento, ma Conte, essendo sempre più capo politico, toglie spazi di spartizione e consumo di potere alle truppe pentastellate. Essi prenderanno sì lo stipendio fino alla fine del mandato, ma non gestiranno più tanto potere come prima. In altre parole, sono dimezzati anche se hanno il coltello dalla parte del manico. È un coltello spuntato perché a usarlo, togliendo la fiducia al governo, perdono la poltrona, ma è comunque un coltello che può fare male, sottoponendo tutti a una tortura cinese dei mille tagli.



Infatti il potere in grande passerà nelle mani del premier, e probabilmente degli altri ministri Pd, i quali, da consumati manovratori di palazzo forse ben più dei leghisti, non lasceranno grande spazio a Di Maio e compagni.

Inoltre se Conte prende il partito anche Di Battista è svuotato come leader di riserva. Non ha avuto un posto ora e non lo avrà neppure in futuro: ciò vuol dire che bisognerà accontentarlo con una poltrona da Ministro? E se si rivelerà, come altri prima di lui, del tutto inefficiente? Ma c’è un’altra incognita: se Conte ha sfilato il partito a Di Maio, non potrebbe riuscire a sottrarlo anche a Casaleggio?

In ogni caso, questo teatrino a 5 Stelle pro o contro Conte sta riportando in auge le sorti del Movimento, come rilevano i sondaggi.

Il Pd, molto più istituzionale ma senza una poltrona che rivaleggi con quella del premier, a cui tocca un ruolo speciale proprio nella comunicazione istituzionale, riuscirà poi a trovare uno spazio diverso di comunicazione o verrà seppellito dalle polemiche a 5 Stelle “Conte sì Conte no?”

Qui forse vale la pena riflettere sulla proposta, ironica ma non tanto, di un grande saggio del Pd, Massimo D’Alema. In un tweet D’Alema suggeriva di dare la segreteria del Pd a Crozza e la presidenza a Checco Zalone. Infatti c’era stato un tempo in cui Grillo voleva correre come segretario del Pd, ricorda l’ex premier, e Fassino gli suggerì di farsi un suo partito. Voleva essere una facezia, allora. E ora?