Vista da lontano, l’Italia appare evanescente. Non si vede soggetto che abbia la situazione in mano, o potrebbe tentare di prenderla.

A cominciare dal governo. Si è appena insediato e ha solo il 44% dei favori nei sondaggi. Il premier Giuseppe Conte ha parlato di tutto al suo insediamento, ma proprio per questo ha lasciato l’amara impressione di non avere in mente niente, perché in politica, come nella strategia militare, quando si difende tutto non si difende alcunché.



M5s sta recuperando nei sondaggi giornalieri e avrebbe sorpassato il Pd, che solo due settimane fa li aveva surclassati. Ma al suo interno il MoVimento è estremamente diviso.

Beppe Grillo cerca di sfuggire all’alone dello scandalo per la bravata (o peggio) del figlio in Sardegna e così si espone a tutte le accuse di corruzione familistica che fino a ieri aveva liberamente distribuito a chiunque.



Davide Casaleggio pare incerto se dare in futuro il partito a Conte o a chi altri. Luigi Di Maio mostra l’intenzione di usare le stanze del ministero degli Esteri per farsi il suo partito nel partito. I deputati sono spaccati tra una minoranza di duri e puri, che rimpiange il movimentismo originario, e la maggioranza interessata a mantenere il privilegio esistente per più tempo possibile.

Né il Pd sta meglio. Nicola Zingaretti cerca di tenere eroicamente tutto insieme, ma tutti scappano da tutte le parti. Da Matteo Renzi in poi i dem sono ognuno capo di sé stesso, preparati col ritorno al proporzionale a farsi il loro partitino del 2-3% e da lì muoversi da navigatori del palazzo.



FI sembra avere rotto gli indugi e avrebbe deciso di finire di esistere sciogliendosi dentro la Lega. Un trionfo per il partito di Matteo Salvini, che però pare avere perso la tramontana. Si lamenta, protesta, inveisce contro avversari ed ex amici. Non ha la lucidità che lo accompagnava fino a tre mesi fa. Se non la ritrova, tutto è perso.

Gli immigrati sono diventati il discrimine tra governo e opposizione: buonisti contro cattivisti. Poi c’è l’Europa: bella o brutta, complica il quadro, perché il nord vota Lega ma sa di avere bisogno della Ue.

Sembra uno scontro di retorica e non di sostanza. Certo la retorica è fondamentale, perché crea cultura sociale e legittima comportamenti deleteri. Ma se la battaglia è puramente sulla retorica, la politica è poco diversa dal tifo da stadio, Milan-Inter, Roma-Lazio: alla fine si sceglie la squadra degli amici o della famiglia, ma non perché davvero una sia diversa dall’altra.

Così in mezzo a questo vuoto la politica italiana diventa invisibile all’estero, cioè non si capisce nulla. Una sola cosa è chiara: che non c’è alcunché di sostanziale in ballo, se non che la confusione potrebbe contagiare il resto d’Europa che si siede, quella sì, su problemi concreti. Non c’è invasione straniera, c’è solo tentativo di contenere una liquefazione.

Forse proprio la sfiducia europea nell’Italia è quella che ha assegnato a Paolo Gentiloni, nella Commissione, un posto in realtà di second’ordine. Il presidente Ursula von der Leyen era ministro della difesa in Germania, Gentiloni era premier in Italia, un dei paesi grandi della Ue. Ma Gentiloni è stato messo sotto l’autorità del vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrovskis, già premier della Lituania (circa 1,5 milioni di abitanti). In altri tempi, in circostanze simili, Romano Prodi fu presidente della Commissione.

Così l’unica realtà che appare è quella di Urbano Cairo. L’editore di Rcs e La7 nega ambizioni, ma lascia circolare pettegolezzi. Sognerebbe una formazione di centro raccogliendo qui e là alleati.

Ma per fare che? Infatti fuori è tale e tanta la confusione sull’Italia che pare improbabile basti una specie di ribollita di vecchi talenti. Come hanno detto questa settimana Giavazzi e Alesina, bisogna tagliare le tasse, togliere il fiume di denaro che va dallo Stato alle imprese. È necessario sciogliere burocrazia e giustizia civile, che di fatto impediscono non solo agli investimenti stranieri di arrivare ma rendono anche costosissimo e impervio spendere i fondi allocati dalla Ue.

Queste sono però cose che si ripetono da almeno 20 anni e non si fanno perché non c’è un governo che abbia avuto abbastanza autorevolezza o poteri per attuarle. La situazione diventa un gatto che si morde la coda: perché gli italiani dovrebbero dare oggi il 51% dei voti a qualcuno? Non si sta insieme, si convive, solo per risparmiare sull’affitto (per pagare il debito pubblico, in questo caso). Occorre amicizia o amore altrimenti, al di là delle convenienze, ci si ammazza. È il patto sociale che è venuto meno in Italia.

La prima repubblica aveva un “progetto-paese” (essere l’astuto confine sud-est della Nato, essere la prima cerchia di protezione della Chiesa, unire nello sviluppo il paese con riforme e cassa del Mezzogiorno, eccetera) ma oggi questo progetto non c’è più. Immigrazione ed Europa sono divisioni irriducibili che provano l’assenza di un progetto paese. Perché nessuno ha chiaro cosa davvero fare, è solo chiara l’opposizione all’altro.

La fuga di capitali finanziari, umani e assenteismo dal voto indicano che c’è una sfiducia endemica che andrebbe forse affrontata di petto.

Manca un progetto-paese perché il vecchio prodotto non funziona più, come le aziende che fanno un bene che ha smesso di vendere. L’Italia non è più confine, la Chiesa guarda al mondo, sud e sviluppo sono scomparsi dal vocabolario. Né ci sono sostituti. Il dubbio è che se Cairo, o chi per lui, non produrrà un progetto paese convincente, la confusione semplicemente aumenterà.