L’apertura dei mercati martedì 14 è la grande prova per l’Italia. Essi possono crollare o restare indifferenti alle feroci polemiche iniziate con il duro discorso alla tv del premier Giuseppe Conte. Entrambe le reazioni pongono grandi rischi per il paese, anche se si tratta di rischi diversi.

Se i mercati restano indifferenti, vuol dire che non danno peso alle parole di Conte di non firmare l’accordo europeo giovedì 23 aprile. Questo è buono nel breve termine, perché lo spread italiano non si impenna evitando di mettere a rischio il paese, ma è meno buono nel medio–lungo termine, perché la posizione italiana in ogni futura trattativa sarà più debole o addirittura non considerata.



Se invece i mercati crollano, vuol dire che hanno preso sul serio le minacce di Conte, che i giorni fino al 23 possono essere molto agitati e che il paese davvero rischia la bancarotta. In realtà, come ha sottolineato anche l’ex governatore della Bce Mario Draghi, la firma dell’accordo del 23 non chiude alcuna finestra per l’Italia.



Ma dietro questa alternativa, crollo o non crollo, c’è una questione forse incompresa che aleggia nel dibattito politico attuale. Nel 2011, quando i mercati spinsero alla caduta il governo Berlusconi, l’Italia comunque aveva una posizione di ricatto. Essa poteva dire: salvatemi o il mio fallimento innescherà una crisi globale come e peggio di quella del 2008.

Oggi invece il mondo è in piena crisi e non si sa se, come e quando ne uscirà. In tali circostanze se un paese, come l’Italia per esempio, si agita troppo, mette in pericolo tutti e quindi per la salvezza di tutti diventa meglio, più facile, buttarlo a mare che cercare di tirarlo a bordo.



L’Italia in altri termini ha perso la sua forza di ricatto e, con le sue polemiche politiche incomprensibili fuori confine, è diventata oggettivamente una mina vagante. Facile quindi che essa sia abbandonata al suo destino, come una delle tante Repubbliche delle Banane sparse per il mondo.

Ciò a sua volta potrebbe o dovrebbe trovare sostenitori e oppositori in Italia stessa. Settori politici di varia estrazione possono avere interesse a un fallimento dell’Italia. Certo, gli italiani andranno in miseria ma essi potranno governare il paese senza vincoli esterni e agitando magari anche lo spauracchio del nemico straniero. In tale situazione il loro controllo del paese sarebbe più svincolato da condizionamenti esterni e quindi il loro potere interno maggiore. Ci sarebbe una nuova “indipendenza” italiana.

Un paese così alla deriva dovrebbe porre però problemi esistenziali alla Santa Sede. Con la fine dello Stato pontificio, il Vaticano si è affidato all’Italia per costruire una stabilità politica di base entro cui poi pensare al mondo. Se questa stabilità di base viene a mancare, la Santa Sede viene risucchiata nelle questioni politiche italiane che la distraggono oggettivamente dall’afflato globale oggi in atto.

Né poi la nuova “indipendenza” italiana avrebbe gambe molto lunghe. L’Italia non è un pezzo di foresta nel mezzo dell’Africa o dell’America Latina (con tutto il rispetto per le foreste dei due continenti) indifferente a interessi globali.

Essa è al centro del Mediterraneo, nel cuore di nuove grandi partite continentali. In tali condizioni l’indipendenza può esserci solo se c’è una forza politica, progettuale, economica e militare che la sostenga. Altrimenti essa diventa oggettivamente terra di conquista del primo generale libico o capo cosca con qualche ambizione.

Anche in questo caso, ciò può essere indifferente a chi cerca il proprio vantaggio senza curarsi di quello del paese. Ma forse a questi nuovi avventurieri della politica occorre ricordare che tale gioco è molto pericoloso a livello di vita personale. Una volta innescata la partita infernale, il 99 per cento dei protagonisti attuali potrebbe finire la sua corsa.

Occorrerebbe allora frenare, fermarsi e cambiare direzione fin quando si può, perché con l’epidemia in corso, la depressione economica che avanza e il grande scontro geopolitico in atto, tutto diventa molto scivoloso e incontrollabile.