Mario di qui, Mario di là, Mario di su, Mario di giù… Marioooo. Il presidente del Consiglio Mario Draghi sembra diventato il novello Figaro. C’è chi lo vuole incollato alla poltrona di Palazzo Chigi, chi invece al Quirinale, chi magari alla Nato oppure alla presidenza della Ue o chissà dove altro. Solo che non si tratta di sforbiciare capelli. C’è da rimettere in piedi un paese e l’Italia sembra in grado di esprimere solo lui.
Paolo Mieli in un articolo del 21 ottobre centra un punto. L’insistenza su Draghi equivale ad un’amara confessione da parte dei partiti: quella di non avere personale politico di qualità. Invece di formare nuovi politici – reclutarli è solo apparentemente più facile – preferiscono Draghi, che vidima e garantisce la continuità. Così nei fatti, in un paradosso, Draghi da stimolo di rinnovamento diventa il suo tappo. Qui c’è tutto il genio del trasformismo italiano e la fede ingenua nell’ingegneria politica. Torna in mente la storia dell’euro.
L’adesione italiana alla moneta unica doveva essere uno stimolo per il paese a uniformarsi a regole di maggiore efficienza. L’intenzione era giusta, ma l’Italia l’ha stravolta: l’euro è diventato la garanzia suprema del paese, che nonostante appunto il “vincolo esterno” si è comportato in modo più indisciplinato che mai. In questo modo il rischio di far crollare l’euro ha dato ad altri le responsabilità degli errori italiani, e quindi Roma ha potuto fare come voleva.
Ai tempi di un governo per certi versi simile all’attuale, quello di Carlo Azeglio Ciampi del 1993, si era in una situazione diversa. I partiti travolti da Mani pulite e dal terremoto internazionale del crollo dell’Urss scientemente fecero un passo indietro per dare spazio a un esecutivo di soli tecnici. Ma allora i partiti c’erano ancora, avevano forti personalità culturali, e avevano coscienza della crisi; con Ciampi si presero una pausa, lo sostennero, per ricominciare subito dopo a fare politica.
Oggi è diverso. I partiti sono sfilacciati, le personalità che li guidano sono senza profondità culturale. Hanno dovuto accettare il commissario Ue Draghi, ma non hanno fatto nulla di più. Infatti gli presidiano il governo e cercano di tenere i propri spazi.
La forza iniziale di Draghi era di non entrare nella politica, nei partiti, negli apparati. In questa situazione, se però Draghi non promuove nuova qualità di personale amministrativo e politico, si sancisce il declino del paese. I partiti non hanno interesse ad aiutarlo in questo, perché vogliono continuare come hanno fatto finora: legittimare la loro mediocrità. La burocrazia fa la medesima cosa, perché la sua sopravvivenza viene prima di tutto. Quindi come se ne esce?
La permanenza di Draghi, che si prende sulle spalle responsabilità altrui, e non punta il dito su partiti e burocrazie moribonde, di fatto sancisce la fine della politica. Non c’è un progetto che si contrappone a un altro progetto, per esempio “sviluppiamo il Sud per essere il centro del Mediterraneo” oppure “puntiamo a essere la piattaforma della Russia in Europa”. Sono due progetti alternativi che potrebbero ciascuno avere dei meriti e impongono direzioni e scelte diverse. Il paese dovrebbe discutere e capire cosa vuole a lungo termine.
Invece ora c’è solo “coscienza e buon senso”, che si oppone a “infantilismo pasticcione”. Certo, è meglio il buon senso, ma sottolinea che il resto è solo un pasticcio. Così da una parte Figaro-Mario non basta più, perché le mattane dei partiti hanno portato il governo a fare come da copione, come non ci fosse il super-Draghi, cioè a presentare il bilancio alla Ue oltre il limite del 15 ottobre. Alla fine Draghi ha battuto il pugno sul tavolo e si è lasciato i partiti alle spalle.
D’altro canto, tutto quello che non è Draghi, è al di sotto. Draghi non potrà essere tutto – presidente della Repubblica, del Consiglio, della Ue eccetera – e chiunque prenderà il posto che lui non assumerà, sarà meno di lui, perché lui è la prima scelta.
È il bollo notarile del vuoto esistente, il sigillo sull’incoscienza della situazione, che resta drammatica.
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