Gli scandali sul Consiglio superiore della magistratura intorno ai comportamenti o alle dichiarazioni dei giudici Palamara, Davigo o Di Matteo e il più ampio dibattito sulla giustizia forse aprono una questione più profonda, quella del vuoto etico del Paese.

Esso è forse la vera questione morale, quasi 40 anni dopo quella sollevata dal segretario del Pci Enrico Berlinguer e dopo che alle passate elezioni per la prima volta un partito, il Movimento 5 Stelle, è andato al potere in base al grido, rivelatosi poi vacuo, “onestà–onestà”.



Il problema fondamentale è che c’è un giudizio morale e un giudizio penale, come ha sottolineato il procuratore generale Giovanni Salvi, nella sua relazione all’anno giudiziario. Sarebbe da folli confondere i due piani. Se dovessimo sterminare i cattivi, i peccatori o gli impuri, si sarebbe detto un tempo, la terra sarebbe un deserto.



Inoltre in ambito giudiziario ci sono e devono esserci gradualità. Perché essere tenuti alla gogna mediatica per decenni, pena che non è prevista peraltro dai codici, fondati sull’idea della presunzione di innocenza? Ci sono colpe che si scontano e si devono scontare con una multa, altre con due mesi prigione, altre ancora con 20 anni di prigione.

Se poi si è assolti, nel bene o nel male, la gogna dovrebbe finire. Invece in Italia tutto appare sbavato e vago. Chi è importante o gode di visibilità, lo si condanna alla gogna mediatica eterna, che è una pena morale o infernale da catari.



Tale gogna mediatica eterna avviene anche grazie a un intreccio improbabile di certa magistratura con certo giornalismo: io magistrato metto sotto inchiesta X, ma al di là della futura condanna, passo la notizia dell’inchiesta al giornale Y, e la pubblicazione dell’articolo su X valida l’inchiesta stessa.

A ciò si unisce l’assoluzione fattuale di comportamenti di personaggi pubblici che sono profondamente “immorali” purché essi siano “legali” entro la lettera della legge. Per esempio si ritarda per mesi di iniettare liquidità nel paese, creando di per sé la crisi economica, perché gli aiuti devono essere erogati rigidamente entro i limiti di legge per evitare azioni di possibili profittatori. Ma qual è la priorità, rispettare il codicillo di legge o evitare il fallimento del paese?

Ma il codice penale non può essere il sostituto dell’etica, perché questo paralizza l’azione politica e apre al legalismo sterile: il problema diventa muoversi tra le maglie e gli interstizi della legge, farla franca senza bisogno di fare cose che siano moralmente giuste.

La sovrapposizione del diritto penale a un’etica purista apre all’immoralismo diffuso fattuale, che si autoassolve perché trasgredisce all’etica concreta, ai bisogni politici alti, pur rispettando la lettera della legge.

È la versione moderna dell’antimafia che combatte la mafia imponendo una nuova dittatura pratica e tirannica forse più immorale della prima, avrebbe detto Sciascia. Solo che tutto avviene a un livello più alto, di politica nazionale e non solo di gestione locale di questo o quell’appalto. Ciò non vuol dire l’assoluzione della mafia o del comportamento politico inconsulto, ma che, come si sa dai tempi antichi, i catari fanno più danni dei peccatori.

Senza una vera capacità di discernimento, l’applicazione assoluta della legge diventa supremamente immorale: summum ius summa iniuria, come già sapevano i romani fondatori del diritto.

Prima del codice di Giustiniano il diritto romano era basato sulla discrezionalità del giudice con un’alta morale e un forte senso dello Stato, e sui precedenti giuridici, cioè la storia, la tradizione che ha valore perché interpreta le radici. Questo è il diritto che ancora vige nei paesi anglosassoni. Il codice di Giustiniano voleva limitare la discrezionalità dei giudici e “codificare” il senso e lo spirito dello Stato. Ma quando lo Stato si indebolisce, il codice può venire interpretato dal giudice come una clava assoluta, senza i freni della sua morale o della tradizione.

Questa situazione italiana è forse anche il risultato della storia. Chi si ricorda, a cavallo tra gli anni 80 e 90, del giudice di Cassazione “ammazzasentenze” Corrado Carnevale? Come Carnevale assolveva tutti, alcuni giudici di oggi vogliono tutti condannati.

La mancanza di equilibrio, il pendolo che va da un estremo all’altro “tutti assolti–tutti condannati” distrugge ogni fiducia nella giustizia. E molti, nella magistratura e forse anche in un certo giornalismo, prigionieri del proprio corporativismo, non fanno nulla per ripristinare tale credibilità.

Forse col senno di poi bisognava vedere che Carnevale riusciva a fermare le condanne perché c’era un problema sostanziale nella giustizia, non solo personale di Carnevale. In quel caso forse occorreva sostituire Carnevale e cambiare certe regole della giustizia: la storia dei tre gradi di giudizio quasi automatici, l’irresponsabilità dei giudici rispetto alle loro sentenze, eccetera, tutti elementi in teoria perfetti ma che in pratica indeboliscono le istituzioni in un circolo vizioso, specie se davanti allo sgretolamento dello Stato.

Che fare? Forse bisogna cominciare dall’uomo, dalla nostra etica, che deve essere rigida con noi stessi e generosa con gli altri, non il contrario. Se valutazioni psicologiche e di equilibrio mentale e morale valgono per i poliziotti, tanto più dovrebbero valere per i magistrati.

Inoltre occorre una riforma della giustizia con il concorso dei magistrati, dato che la giustizia è uno dei poteri chiave dello Stato, che in Italia si sta sfarinando. Tale riforma poi, proprio per la gravità della situazione, ha bisogno di essere molto prudente e non radicale. C’è stato troppo radicalismo in passato, nell’illusione che colpi di spugna potessero sanare tutto.