Potrà Mario Draghi colmare il vuoto di leadership oggi presente e forte nell’Unione Europea? Molti giornali e osservatori stranieri cominciano a pensarlo.

Draghi ha infatti svoltato pagina sulla questione più urgente del momento, quella dei vaccini. Invece di cercare di trattare sul prezzo delle dosi, egli si è concentrato, e spinge la Ue a concentrarsi, sull’approvvigionamento il più rapido possibile.



Ciò poi non ha significato prendersi qualunque cosa a qualunque condizione. Draghi rimane infatti prudente sul vaccino cinese, che non pare abbia una efficacia risolutiva, o sul vaccino russo, del quale non vi è capacità produttiva reale.

Questo gli dà credito a Washington, molto attenta alla diplomazia del vaccino oggi in corso che va a inserirsi nel gioco di scontro tra Usa, Cina e Russia. Ciò a sua volta gli da peso sul vecchio continente, molto confuso sul da farsi e su come porsi sia sulla campagna vaccinale sia nelle grandi partite geopolitiche.



Esse sono vicende reali, che toccano la vita delle persone: sopravvivere a un’epidemia o muoversi in una delicata guerra fredda in corso. Questioni che le persone sentono in maniera forte.

La vicenda, come anche l’esperienza professionale di Draghi, dimostra che la leadership non ha necessariamente bisogno di un mandato concesso da un’elezione democratica. Draghi è infatti stato nominato dal parlamento e non ha un partito. Ciò che davvero conta è la combinazione di autenticità, leadership e competenza; questo colma, specie in momenti di crisi come l’attuale, il vuoto e quindi genera un seguito reale.



La gaffe in cui Draghi chiamava il presidente turco Erdogan “dittatore” rinforza la cosa. Il premier ha detto ciò che pensano tutti gli europei. Ha fatto un errore, che è tale, ma un errore di autenticità, cosa che quindi rinforza la sua posizione.

Questo dovrebbe avere conseguenze importanti sul dibattito politico italiano. Draghi dimostra che bisogna essere fortemente europei e europeisti per poter criticare positivamente l’Europa. Prova inoltre che la grande partita per poter governare l’Italia avviene fuori dall’Italia stessa, in rapporto con la Ue e con l’America, senza dilettantismi e con grande competenza.

Di conseguenza Draghi non ha bisogno di farsi un partito né in senso stretto né in senso lato.

In tutto ciò potrebbero esserci alcune lezioni per i partiti italiani.

L’onestà della classe politica, la questione dell’immigrazione, sono problemi reali ma diventati assolutamente secondari nel mezzo di una pandemia/guerra fredda. Tanto più lo sono le vicende contorte e incomprensibili delle alleanze fra partiti.

Una volta esse erano confinate ai corridoi secondari perché appunto indecifrabili ai più. Oggi spesso sono lavate in pubblico tra polemiche velenose quanto misteriose, cosa che poi rafforza impressioni complottistiche di ogni tipo.

In questo senso il governo Draghi potrebbe e forse dovrebbe essere un campanello per tutti i partiti, quello di un ritorno all’autenticità personale e all’affronto delle questioni reali e urgenti al di là delle piccole partigianerie.

Difficile però che ciò avvenga presto o bene. Per molti nei partiti Draghi sembra solo una pausa per disinteressarsi della complicata responsabilità di governo e concentrarsi invece in polemiche spesso sterili che indeboliscono solo se stessi.

Qui sta la vera questione di medio-lungo termine. Draghi governa, ha ridato uno spazio all’Italia ma non è né può essere il sostituto dei partiti in lizza tra loro come fossero squadre di calcio, senza progetti pratici o ideali per il paese.

I partiti che davvero useranno la “pausa Draghi” per ripensarsi potrebbero raccogliere tutta l’eredità di questo governo.

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