Nel turbinio di parole, dichiarazioni, tweet, messaggi col telefonino, slogan, insulti dati e ricevuti, chiacchiere da bar e non, ciarle, cicalecci, vaniloqui o pettegolezzi che si rincorrono come topi in una fuga di massa, forse la cosa più chiara della confusione senza precedenti di queste ore sono le immagini.
Il premier, l’avvocato professor Giuseppe Conte, solo e quindi isolato, davanti a un’aula del Parlamento deserta se non per pochi fischi. Poi l’incontro, il giorno dopo, dei due vicepremier Luigi Di Maio e Matteo Salvini, senza Conte.
La somma facile dei due fatti dice varie cose. La prima, più semplice, è che Conte non conta.
Ciò perché l’emiciclo deserto della sua maggioranza significa che nessuno dei suoi nei fatti lo appoggia, al di là di quello che possa avere detto o delle ragioni addotte per l’assenza.
Inoltre, non conta perché non era all’incontro che contava, quello tra i due vicepremier che discutevano del futuro del governo, e quindi anche di lui, Conte.
Se fosse stato un uomo di parola, Conte si sarebbe già dimesso, come aveva proclamato sulle pagine di Repubblica un mesetto fa. Ma le sue erano evidentemente asserzioni gradasse, un tentativo di ricatto politico, forse. L’effetto però è che oggi, qualunque cosa dica, non varrà.
Se il premier non vale, ma lo sa, e si comporta di conseguenza, prendendo ordini da chi deve (i due vice in questo caso) oppure, meglio, riuscendo a creare una sintesi alta di posizioni differenti, allora va bene. Ma se il premier non conta, dice di non voler prendere ordini, e non riesce in una sintesi alta, allora il governo è già caduto, al di là di ogni formalità di legge.
In termini medici diremmo che il governo è in coma profondo, e la sua vita è attaccata alle macchine, agli incastri delle mille fragilità e paure di questo Parlamento che non sa parlare a sé stesso e al paese.
Questa situazione di coma può andare avanti per anni, e talvolta è anche giusto sperare e aspettare una guarigione. Ma altre volte l’attesa è solo accanimento terapeutico, crudeltà verso il malato stesso, l’Italia in questo caso, che avrebbe bisogno di alzarsi e cominciare a camminare.
Nella confusione attuale però non si sa nemmeno chi debba o possa staccare la spina. Né è chiaro se possa funzionare l’ipotesi minima di un grande rimpastone che mandi Conte da qualche parte.
Questi i fatti. Le voci invece sono una tempesta. Qui un esempio.
Conte non piacerebbe a Salvini perché troppo pentastellato. Di Maio invece si sarebbe stufato del premier perché questi vorrebbe fare il capo del M5s, quando le stelle di Di Maio e Di Battista sono tramontate e Casaleggio forse punterebbe su un profilo più istituzionale. Il Quirinale certo non si schiera né a favore né contro Conte. Ma anche questa neutralità non gioca per l’avvocato fatto premier.
Le ragioni potrebbero essere altre, ci potrebbe essere la Tav, il Russiagate o chissà cosa. Non cambierebbe però la sostanza, mentre altri e nuovi agenti esterni potrebbero intervenire. Nuovi scandali, nuovi impicci, nuove divisioni incideranno sempre più sulla salute del comatoso e da lontano non sappiamo se sperare che sopravviva a lungo o muoia presto.