La domanda di oggi è come il governo e l’Italia reggeranno la riapertura.
Il timore maggiore riguarda la disorganizzazione che potrebbe colpire il paese. Le norme che regolano la riapertura sono di difficile lettura e interpretazione: come verranno applicate dalle forze dell’ordine e dalla gente?
Facile aspettarsi confusione e incertezza, che moltiplicheranno il disagio sociale ed economico di dovere convivere con il virus ancora per molti mesi. Non è chiaro cosa comporterà questo sfarinamento progressivo e se e come potrà essere arrestato.
Non c’è una risposta chiara, e le misure, come si è visto negli ultimi mesi, sono prese praticamente giorno per giorno. Ciò da una parte è ragionevole, vista l’eccezionalità della sfida, ma testimonia forse anche l’assenza di una solidità culturale di fondo del governo a guida – non dimentichiamolo – M5s.
Dal dopoguerra in poi il Pci, pur non essendo al potere, aveva costruito un possente apparato culturale e di analisi della realtà che sfidava e pungolava con grande forza la visione dominante della Dc, radicata in una millenaria cultura cattolica. La cultura cattolica aveva poi assorbito in parte e messo al suo servizio la cultura liberale e radicale di una parte del risorgimento. I comunisti esercitavano quella che i democristiani finirono per ammettere fosse una “egemonia culturale”. Essa minava dal profondo il modello culturale di potere del paese e poneva un’alternativa austera, condivisibile o meno, ma molto seria.
Tale sfida culturale venne smontata non con un attacco frontale, ma con un assedio progressivo di un nuovo modo di fare informazione e cultura che cominciò con gli anni 80. Berlusconi fu il protagonista principale di questa nuova cultura che divideva la comunicazione secondo un modello già sperimentato da molti anni in paesi anglosassoni. Da un lato c’era la comunicazione più popolare, crassa ed evasiva, dall’altra i giornali paludati, Il Giornale di Indro Montanelli, i sottili uomini di Stato come Gianni Letta o i professori sofisticati come Antonio Martino o Giulio Tremonti.
In qualche anno questo modello riuscì a distruggere il doppio perbenismo della Dc e del Pci, ma poi si sgretolò anch’esso. La vitalità della tv venne gradualmente spazzata via della nuova forza della comunicazione su Internet che confondeva livello basso e livello alto, ignoranza e specializzazione.
Questo modello oggi viene dominato nelle due grandi potenze industrial-culturali in due modi diversi. In Cina c’è un dirigismo “neo-platonico” dello Stato sulla comunicazione e la cultura che dosa con attenzione livello basso e alto. Negli Usa, in mezzo alla confusione delle chiacchiere, ci sono vere e proprie rocce costituite da think-tank, istituti di ricerca, giornali solidissimi, “stato profondo”, tutti elementi che comunque sorreggono il dibattito e lo indirizzano. Su questo poi agiscono i vari “spin doctors” dell’informazione, che muovono un dibattito ancorato a pensieri “forti”.
In Italia mancano sia lo Stato neo-platonico, sia lo stato profondo, sia gli istituti di ricerca. Il paradosso, raro e forse senza paragoni nei paesi sviluppati, è che il dibattito culturale è “disancorato” e quindi praticamente per intero in mano a spin doctors come i grandi consulenti di informazione su rete che sono dietro Lega e M5s. Ma questi maestri abili solamente nel far girare la notizia in un senso o in un altro sono a un tempo più potenti e più eterei. Le opinioni vanno e vengono come un venticello, non c’è cultura e non c’è quindi neanche possibile egemonia culturale.
Questo però significa anche che il potere dei leader, legati ai maestri della comunicazione, è ancora più etereo. Non ci si aggrega a un partito per convinzione radicata, ma per moda o convenienza del momento.
Questo non è un problema di tenuta culturale del paese ma si traduce in un problema politico molto specifico. Senza scuole quadri, senza centri studi di partito, i deputati a 5 Stelle si sono affollati intorno al leader carismatico Beppe Grillo per una spinta etico-ideale dell’attimo o per cercare fortuna. Ma allo stesso modo molti sono pronti a mollarlo per mantenere quello che alla fine gli è più caro, vale a dire il posto al Parlamento e lo stipendio.
Ciò significa che se l’attuale governo Conte dovesse cadere, la gran parte di essi sarebbe disponibile ad appoggiare un altro governo, con una maggioranza magari diversa, pur di non andare al voto. Conta solo la poltrona. Sono nati contro le poltrone e molti sono “diventati” poltrone, per questo molti di loro sono pronti a ogni tradimento.
Questo, concretamente, significa che la maggioranza di Conte è appesa a un filo. Egli può durare fino alla fine della legislatura, se riesce a perseverare nella sua attenta arte di accontentare tutti con tutto, come può, allo stesso modo, uscire di scena in ogni momento, perché dietro il suo governo non c’è più alcun tipo di progetto politico.
Fin tanto che c’è l’emergenza, come ricorda il filosofo Lorenzo Infantino, tutti si attaccano al capitano della nave, sempre e comunque. Ma appena l’emergenza finisce, inizia il conto delle colpe passate e presenti.
A questo punto la possibile confusione dei prossimi giorni potrebbe essere cruciale.