In fondo la politica è come l’agricoltura: la pioggia in tempo di siccità è un dono di Dio, ma se si tratta di un diluvio è l’inferno. Cosa è stato il voto sulla riduzione del numero dei parlamentari la settimana scorsa? Se si tratta di un taglio di poltrone, e “poltrona” è ogni incarico parlamentare, perché l’onorevole Luigi Di Maio non ha tagliato anche sé stesso? Se continua a fare il parlamentare dopo il voto sul taglio dei parlamentari, dimostra di essere solo abbarbicato alla sua poltrona. E ancora: perché non si sciolgono subito le camere e si riducono subito le “poltrone”?



L’idea di ridurre il numero dei parlamentari nasceva anni fa per la volontà di dover drasticamente tagliare le spese dello Stato. Quindi i vertici si sarebbero autoridotti, così come anche le varie amministrazioni dello Stato avrebbero dovuto perdere posti di lavoro. Giusta o sbagliata che fosse, era un’ipotesi che aveva un senso, e andava poi incastrata nel quadro di una più complessa riforma costituzionale.



Ma sganciata da una ristrutturazione dell’amministrazione e da una riforma costituzionale, tale provvedimento delegittima il Parlamento e le istituzioni, silura la Costituzione e spalanca i cancelli a qualunque tipo di golpe o semplice implosione del sistema.

Tutti questi sono probabilmente visti come castelli in aria da gente come i parlamentari attuali, impegnati a sopravvivere di giorno in giorno in una situazione di equilibri politici estremamente precari.

Quindi il taglio delle poltrone è solo l’ultima trovata per assicurare una stabilità di qualche mese al Parlamento (il tempo minimo per ridisegnare collegi e passare a una nuova legge elettorale sulla base dei numeri ridotti) e gettare un po’ di fumo in faccia all’opinione pubblica. Nel frattempo si butta avanti la palla, puntando a risolvere i problemi man mano che arriveranno.



Questo forse sarebbe anche possibile in un quadro internazionale stabile, ma l’attuale non lo è. Venerdì il presidente americano Donald Trump ha annunciato che un accordo sul commercio con la Cina si dovrebbe firmare a novembre. Ciò vuol dire che l’accordo di certo non è stato firmato, che esso si firmerà, forse sì forse no, a novembre e comunque è chiaro che esso sarà solo una tregua in questo scontro molto complesso tra la prima e la seconda economia del mondo.

La tregua servirebbe alla Cina per prendere tempo e pensare cosa fare in una situazione globale per lei nuova; servirebbe a Trump per arrivare alle elezioni senza una recessione. Ma Trump ha anche bisogno di dimostrarsi vincitore contro la Cina, quindi non può cedere troppo; e anche la Cina vuole guadagnare tempo senza concedere troppo. Quindi l’equilibrio è difficile da trovare e sarà comunque precario.

In altri termini, il mondo sta procedendo verso una situazione di grande instabilità e le Borse lo sentono. Ciò anche perché Hong Kong, patria della terza-quarta Borsa del mondo, è nel caos da mesi e non si sa come e se questa confusione va a placarsi.

In questo contesto l’Italia è il più debole dei paesi forti, con una politica che (si è visto) è incapace di governare processi normali, figuriamoci quelli eccezionali. Quindi in caso di possibile grave turbolenza finanziaria nei prossimi mesi (dai tre ai 18 probabilmente) è facile che l’Italia sia la prima a cadere.

Con un Parlamento che si è auto-delegittimato con il “taglio delle poltrone” cosa può succedere? Questa è la domanda a cui non si vuol dare risposta; ma  senza una risposta già da oggi l’Italia diventa terreno di possibile saccheggio da parte di qualunque investitore internazionale.