Caro direttore,
la “caccia alle streghe rosse” non è una novità: certamente non in America. Quella per antonomasia – scatenata da Joseph McCarthy – coincise anzi con la prima “guerra regionale” provocata dalla (prima) “guerra fredda”: quella di Corea, che rase al suolo il paese prima di smembrarlo in Nord russo-cinese e Sud americano.
Fu nel 1950 che il senatore repubblicano del Wisconsin sventolò una lista di funzionari del Dipartimento di Stato presunti aderenti al partito comunista statunitense. Fu l’inizio di una gigantesca persecuzione condotta da una commissione parlamentare d’inchiesta d’intonazione patriottica (la House Committee on Un-American Activities) di cui furono vittime centinaia di migliaia di americani. Tutti oggetto di una sola accusa, spesso sommaria, nella larga maggioranza dei casi falsa: quella di essere “agenti” dell’Unione Sovietica. Di essere assoldati per spiare e destabilizzare la democrazia americana.
I coniugi Rosenberg finirono sulla sedia elettrica per l’accusa – non falsa, ma tuttora oggetto di dibattito storiografico – di essere spie dell’Urss (ma anche sotto un’ombra di antisemitismo: le onde dell’emigrazione ebraica erano state d’altronde fondamentali nell’alimentare le culture politiche “leftist” oltre Atlantico). Fu messo al bando Robert Oppenheimer, il fisico che aveva regalato agli Usa la bomba atomica per chiudere la guerra con il Giappone e entrare nella guerra fredda in vantaggio sui “Reds”. Nelle black list politico-mediatiche e poi giudiziarie si ritrovarono Albert Einstein e Thomas Mann, i due maggiori esuli dalla Germania nazista; Charlie Chaplin, primo gigante di Hollywood; Linus Pauling, Nobel per la chimica, primo scopritore della doppia elica del Dna. Scienziati e giornalisti, scrittori e artisti dello “showbiz”, moltissimi “ordinary people” (ma pochi businessmen): per tutti gli anni 50 subirono arresti, interrogatori-gogna, licenziamenti, proscrizioni professionali o altre svariate forme di morte civile.
Nella “caccia alle streghe” si fecero le ossa due futuri presidenti repubblicani: Richard Nixon (candidato vicepresidente vittorioso già nel 1952) e Ronald Reagan, allora attore di B-movie ad Hollywood. Ma neppure John e Robert Kennedy furono avversari del maccartismo anticomunista. Il ciclone era emerso, peraltro, all’apice di una presidenza democratica: quella di Harry Truman (primo e finora unico bombardiere atomico della storia, anche se poi bloccò attacchi nucleari tattici in Cina decisi dai militari durante la crisi coreana). Fu d’altra parte il presidente-generale repubblicano Dwight Eisenhower – primo comandante supremo nella guerra fredda – che intimò l’alt a McCarthy quando aveva preso ad alzare il tiro sulle presunte “infiltrazioni rosse” al Pentagono.
Nessuno ha comunque mai dimenticato che nel suo messaggio d’addio, prima di passare il testimone a JFK nel 1960, il condottiero della liberazione dell’Europa occidentale lanciò un famoso allarme contro le pretese egemoniche dell’“apparato militar-industriale”. Nessuno come Eisenhower sapeva che la guerra è non solo “la prosecuzione della politica con altri mezzi”, ma anche un gigantesco affare. E le “ricostruzioni” di paesi – o continenti – distrutti dalla guerra anche di più. George Marshall – segretario di Stato di Truman e stratega dell’European Recovery Plan postbellico – era stato il capo di stato maggiore dell’esercito durante l’intera seconda guerra mondiale. James Jesus Angleton – grande tecnocrate del maccartismo come capo del controspionaggio della Cia – si era fatto un nome in Italia: come capostazione dell’intelligence durante la guerra e poi nel presidiare attivamente uno dei primi fronti della guerra fredda, fino alla prima decisiva sconfitta elettorale socialcomunista nel 1948. La logica di Yalta era ferrea: l’Italia era nella sfera d’influenza americana; tutti i Paesi dell’Est europeo in quella della Russia sovietica.
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