Alla fine vinsero loro, i cantautori, perché, a volte almeno, la bellezza trionfa sull’odio. Loro, che erano stati minacciati con una pistola sul palcoscenico (De Gregori al Palalido di Milano), loro, che avevano visto una bottiglia molotov incendiare il palco dove si stavano esibendo (Dalla, sempre a Milano, al Castello Sforzesco). Ma non solo loro. Lou Reed, Santana, Led Zeppelin, Chicago, Cat Stevens, avevano subito sorti simili. Gli autoriduttori, appartamenti ai movimenti della sinistra extra parlamentare, che volevano la musica gratis, che li accusavano di essere diventati dei capitalisti perché prendevano dei soldi per suonare. Erano gli anni 70.



Ma nel giugno del 1979 accade qualcosa che cambiò per sempre la storia della musica dal vivo in Italia, riportandola tra la gente, alla gente. Certo, le conseguenze alla lunga non saranno così positive, quel gigantismo che oggi è diventato regola d’oro, per cui se non fai un concerto in uno stadio (dove si vede e sente malissimo) non sei nessuno, con prezzi alle stelle, spettatori trattati come mandrie di pecore. Ma allora fu una vittoria. Coraggiosa, perché fu una vera sfida lanciata ad aprire le acque, come Mosé.



L’idea fu dello stesso De Gregori, che per via dell’attacco subito tre anni prima si era addirittura ritirato inizialmente dal mondo della musica. Ma dalla musica non si può stare lontani. Dalla invece inizialmente era dubbioso, aveva paura che gli incidenti si ripetessero. Ma la sfida andava portata più in alto: si programmò il primo tour italiano negli stadi. Mai successo prima.

Fu così che il 19 giugno di quell’anno ci ritrovammo allo Stadio Marassi di Genova, dopo alcuni show in location più piccole. L’ambientazione era inquietante, ma quello era il clima dell’epoca. Non si poteva stare sul prato, sul campo da calcio, ma solo sugli spalti. Così il palco appariva lontanissimo, difeso da una selva di transenne. All’epoca non esistevano ancora i maxi schermi, per cui i protagonisti erano figurine piccole e anche gli impianti luce non erano quelli di oggi, al laser. Erano semi nascosti nel buio, quasi potevamo solo immaginarceli, ma quello era il prezzo da pagare: un mare di erba a tenerci lontani da loro, i cantautori, che evidentemente non si fidavano ancora di noi. E chi poteva dargli torto. Ma la musica si sentiva, ed era bellissima.



Lui, De Gregori, boccoli di capelli a scendergli sulle spalle e la barba folta, alto due metri, “biondo quasi come Gesù”. L’altro, Lucio Dalla, basso, piccolo, un cespo di peli che uscivano dalla canottiera. Contrasti. Ma che canzoni. Ognuno cantava le proprie con la propria band, era evidente la fatica di mettere insieme ai tempi uno spettacolo condiviso, così invece era più facile. Per Dalla il nucleo di quelli che sarebbero diventati gli Stadio, con Gaetano Curreri in prima fila. Per De Gregori i Cyan. A tenere insieme il tutto il giovanissimo e bravissimo Rosalino Cellamare, in arte Ron, produttore e arrangiatore delle canzoni. E che suono. Rock con profumi californiani, come il grande amore dello stesso Ron in testa, Jackson Browne, del quale i tre presentavano ogni sera una versione italiana della sua The Road, diventata Una città per cantare, la perfetta road song dei musicisti in tour, tra cocaina, telefonate sulla lunga distanza, ragazze conosciute una sera soltanto, solitudine e la gioia infine di trovarsi sul palco. Per l’occasione De Gregori aveva tradotto un’altra canzone americana, Banana Republic scritta da Steve Goodman e portata al successo da Jimmy Buffett. Come sempre fu il fratello Luigi, l’intenditore, il conoscitore, a fargliela ascoltare. Ne venne fuori un pezzo magnifico, che ironizzava sui ricchi americani (ma anche italiani) che vanno ai Caraibi (o a Portofino) a ubriacarsi e cercare ragazze facili. “Banana Republic è la traduzione di un pezzo di Steve Goodman che mio fratello, più noto come Luigi Grechi (quello de Il bandito e il campione) mi aveva fatto conoscere. Mi piacque molto e cominciai a tradurlo un po’ per gioco un po’ per allegria. Quando la tournée era ormai decisa, pensammo che ci sarebbe voluto un altro pezzo da condividere oltre ai “Marinai”. Io feci sentire a Lucio il brano, a lui piacque. Non solo lo mettemmo nella scaletta del concerto, ma quel titolo innescò uno strano processo di fascinazione cosicché Ennio Melis, direttore della RCA Italiana, uomo di grande istinto, ci consigliò di chiamare il tour come il brano appena realizzato. “Mica la vorrete chiamare I marinai che sa di vecchio?”. Ci disse di chiamarla Banana Republic perché è curioso e non si capisce cos’è” raccontò il cantautore romano al Corriere della sera.

E le altre canzoni: da Pablo, a Milano, da L’ultima luna a Niente da capire, da Quale allegria a Buffalo Bill, da Anna e Marco a Gesù Bambino e la guerra (ma quante grandi canzoni De Gregori si è dimenticato di aver scritto nel corso degli anni?). E poi i pezzi insieme, da Un gelato al limone di Paolo Conte, al pezzo scritto appositamente a quattro mani, la folgorante I marinai, la domanda sul significato della vita. I due avrebbero scritto e inciso anche un altro pezzo, ancor più bello, Cosa sarà, ma senza presentarlo dal vivo.

Ne venne fuori un disco dal vivo, purtroppo di solo dieci pezzi (la speranza è che in questo 40ennale ne venga pubblicata una versione de luxe con più pezzi) e addirittura un film, che fu un flop nelle sale cinematografiche, che raccontava la tournée dietro le quinte, interviste e naturalmente pezzi dal vivo. Il lungo tour si concluse il 16 luglio allo stadio Flaminio di Roma. Nessuna data a Milano, si ipotizzò per la paura del ripetersi degli incidenti al Palalido, ma De Gregori smentisce: ““Non so se fu per questo. Forse furono gli organizzatori a non voler rischiare. Da parte mia certo nessuna ritorsione, rivalsa o voglia di punire una città per un episodio che riguardava una minoranza rissosa e rumorosa”.

Il risultato fu che due mesi dopo, a settembre, un artista americano tornava a esibirsi in Italia, Patti Smith. Poco dopo sarebbe giunto anche Bob Marley e da allora non ci si sarebbe fermati più. Avevamo perso dieci anni di grande musica, e da allora ogni arrivo è diventato automaticamente un evento, per noi italiani affamati di quella musica che ci era stata tolta nel suo momento di massimo splendore, e avremmo trasformato in eventi anche concerti e artisti mediocri.

Curiosamente, Dalla e De Gregori decisero di regalare un replay di quel tour nel 2010, chiamato Work in Progress, senza una scadenza particolare da festeggiare. Col senno di poi, ne siamo contenti. Con la sua morte accaduta poco dopo, Dalla e De Gregori non avrebbero mai potuto festeggiare i 40 anni di Banana Republic. Quando la musica in Italia cambiò per sempre.