Ritorna la calma in Francia, nelle banlieue come nelle città. Il peggio è passato. Sono state archiviate le immagini violente che mostravano orde di giovani devastare tutto. Rimangono le ennesime inchieste sociologiche sul “malessere dei giovani delle periferie”.

Siamo contenti che l’ordine sia stato ripristinato, e calma e senso civico albeggino negli spiriti di questi giovani scalmanati, poco disciplinati, privi di senso civico e poco frequentabili.



Il Governo riprende fiato e proclama la sua “fermezza” nei confronti dei giovani arrestati. Ai tribunali raccomanda “un giudizio celere e severità nelle pene inflitte”.

Tutto insomma ritorna come prima, come se nulla fosse accaduto. Le temperature canicolari hanno già rioccupato il primo piano sui media. Incendi e saccheggi sono cose archiviate, materia per le assicurazioni. Si legge ancora qualche intervista a commercianti traumatizzati che avrebbero sperato di poter vendere in miglior modo la loro merce.



Credo che solo nei romanzi Il mondo nuovo di Huxley o 1984 di Orwell troviamo le immagini giuste per descrivere la volontà di ritornare alla pacifica esistenza e a un mondo apparentemente normalizzato.

Ma che cosa è successo per una settimana in Francia? Perché città e quartieri interi sono stati messi a fuoco, di nuovo come nel 2005? Com’è possibile che un Paese con un’alto grado di civiltà e una cultura millenaria come la Francia sia messo in ginocchio da giovani poco più che ventenni?

È difficile chiederselo, perché le risposte sono poche.

Le forze politiche sanno bene che in caso di insurrezione delle banlieue, le forze dell’ordine potranno difendere solo i “centri strategicamente importanti”. Questure, prefetture, centri di comunicazione. Tutto il resto sarà lasciato in mano ai rivoltosi. Questo è un aspetto del problema che abbiamo visto attraverso le immagini frutto della nostra cultura cinica.



Mi capita, talvolta, di discutere di educazione con il mio amico Davide Rondoni. Mi dice, quando parliamo dei giovani: “la società è seduta su una bomba, ma non lo sa o fa finta di non saperlo”.

Anni fa pensavo che fosse esagerato. Ora l’abbiamo sotto gli occhi. La Francia ne è una prova, una realtà con la quale prova a convivere.

Nessun media o analista ha messo in relazione due fatti di cronaca ben lontani, in apparenza, per la distanza dei luoghi: Roma e Nanterre. Ma i due fatti tragici sono legati da due aspetti comuni: auto di lusso e morte.

Pochi giorni prima della morte del diciassettenne Nahel a Nanterre su un’auto, un incidente mortale è stato causato da uno youtuber a Roma. Due auto, due morti. Mi si potrà obbiettare che ogni giorno ci sono centinaia di incidenti, purtroppo. Tuttavia, una volta superato il trauma, mi sono posto una domanda: che cosa fanno due giovani tra i 17 e i 20 anni su due auto di lusso estremo? Sono macchine che non potrò – e forse non sarò l’unico tra i lettori – mai permettermi né forse sognare.
Due giovani senza rapporti tra loro, eppure tutti e due viaggiavano su auto improbabili per la loro età e condizione sociale. Perché? Che cosa sognano con questi oggetti tra le loro mani? Lo sfarzo, si potrebbe dire. Ma a che scopo?

Da sempre, il sogno di ogni ragazzo giovane è quello di avere un’auto appena passato l’esame della patente. Ma dopo aver guidato una Lamborghini a vent’anni, a quale sogno si può aspirare?

Correre all’impazzata in un centro urbano su una Mercedes da 70mila euro a 17 anni, senza patente, essere fermato per 15 volte dalla Polizia: che gusto può avere una vita così, o se l’auto sparisce?

Credo che la risposta sia da trovare in ciò che è successo in Francia per una settimana. Violenza e distruzione.

Leggendo alcuni articoli, si è parlato molto di “disagio giovanile”, dell’ennesimo problema della vita difficile in banlieue e dell’esclusione sociale. Sono convinto, invece, che le orde di vandali che hanno distrutto le città o i sobborghi francesi, negozi, luoghi pubblici, scuole e municipi, biblioteche, non siano per nulla coscienti del pietismo con il quale autorevoli sociologi o giornalisti provano a spiegare quel “disagio”. Considerare questi giovani “ai margini della società” implicherebbe un limite o una frontiera. Credo, invece, che quando parliamo di certi giovani – in banlieue o altrove – parliamo di un’altra società, parallela alla società considerata civile che vive per vestirsi di Gucci, Prada, Vuitton, Cartier, Dior… veri o falsi non conta, l’importante è sfoggiare autoveicoli da serie americane e cellulari che non esistono nella vita di tutti i giorni. Ciò che conta per “certi giovani” non è tanto il prezzo economico o morale da pagare, ma emergere, essere visti.

Ci sono edifici e quartieri dove i giovani si auto-emarginano per poter vivere in autarchia e auto-proclamare le proprie leggi, il proprio linguaggio e modi di vita. Non per opporsi, ma per marginalizzarsi e vivere di espedienti, campando di spaccio di droga e surrogati vari.

Alcune settimane fa ho partecipato in Prefettura a Marsiglia a una manifestazione organizzata dal Provveditorato agli studi e dall’associazione La Légion d’honneur. La manifestazione consisteva nel premiare i migliori studenti, distintisi per il loro percorso di studi e i risultati scolastici. Quasi tutte le scuole e i licei erano nei quartieri situati nella periferia nord di Marsiglia e considerati molto pericolosi per il loro degrado.

Sono stato colpito da questo centinaio di giovani, che avrebbero tutti i crismi – secondo le teorie sociologiche – per far parte delle orde che hanno vandalizzato la Francia. Invece, hanno creduto nella scuola, hanno fatto fatica, sono riusciti a integrarsi nella società grazie ai loro talenti e meriti, cioè alla loro formazione.

Dopo aver ritirato il premio, potevano pronunciare un discorso. Nel loro modo di esprimersi semplice e talvolta impacciato, tutti hanno avuto ringraziamenti per un insegnante in particolare o anche per un preside per averli accompagnati nel percorso dei loro studi e sostenuti nelle difficoltà, peer aver creduto in loro. La cerimonia si è svolta negli sfarzosi saloni ottocenteschi della Prefettura: luoghi inaccessibili. Eppure, si è data la possibilità a questi potenziali giovani “emarginati” o “casseurs” di sentirsi parte di una nazione, di una società, di una cultura.

Penso anche all’opera “Le Rocher”, associazione cattolica di giovani e adulti che vivono per un anno o più nelle periferie difficili in tutta la Francia per creare un legame diverso, forse anche un’amicizia tra le persone, soprattutto le mamme e le donne. Una vera opportunità di dialogo e d’incontro tra etnie e culture diversissime e talvolta opposte.

Non siamo più nei romanzi di Zola, a fine Ottocento. In alcune periferie difficili, dove in tanti giovani c’è la volontà di ghettizzarsi e vivere nella violenza, nonostante l’alto degrado sociale e umano c’è anche la possibilità di vivere in modo diverso.

Mi permetto di ricordare una frase di Teilhard de Chardin in cui diceva che la cosa peggiore che può accadere all’umanità non è né la guerra né la fame, ma perdere “il gusto del vivere”. Naturalmente ha ragione, ma bisogna chiedersi se certi giovani questo gusto lo abbiano mai incontrato.

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