Secondo le ultime previsioni aggiornate dell’Ocse diffuse mercoledì, il Pil della Germania quest’anno farà registrare un +0,1% per poi crescere dell’1% il prossimo, restando sotto la media dell’Eurozona (+0,7% nel 2024 e +1,3% nel 2025). Si conferma, quindi, il momento di forte difficoltà dell’economia tedesca, che per Lucio Baccaro, sociologo ed economista, direttore dell’Istituto Max Planck per lo studio delle società con sede a Colonia, «non ha natura congiunturale, ma strutturale. Quello cui stiamo assistendo, infatti, è l’esaurirsi del modello di crescita trainato dalle esportazioni che ha garantito buone performance alla Germania dal 1995 in poi, consentendole di risollevarsi dopo la riunificazione e di superare senza particolari problemi sia la crisi del 2008 che quella del 2011».
Quanto sono state importanti le esportazioni per la crescita della Germania?
Tra il 1995 e il 2007 rappresentavano addirittura l’85% della crescita tedesca, mentre tra il 2009 e il 2018 sono scese al 59%. Nel frattempo il contributo dei consumi delle famiglie alla crescita è stato marginale e, soprattutto, la politica fiscale è rimasta restrittiva nonostante un evidente deterioramento delle infrastrutture del Paese e i tassi di interesse molto favorevoli, in alcuni anni addirittura negativi.
Come mai il modello di crescita tedesca non funziona più?
Perché ha delle precondizioni di ordine geopolitico che non sono più soddisfatte. Richiede, infatti, che la Germania continui a svolgere un ruolo che si è ritagliato a partire dal dopoguerra, quello di ponte commerciale tra est e ovest, e che nelle condizioni attuali sta diventando sempre più insostenibile. Da un lato, infatti, è cambiato il rapporto con la Russia, da cui la Germania importava gas a costi contenuti fondamentale per la sua industria e soprattutto per siderurgia e chimica. Oggi per questi settori le forniture energetiche sono diventate più costose, generando uno shock da cui faticano a risollevarsi. Dall’altro lato, è cambiato il rapporto con la Cina, fondamentale mercato di vendita per i prodotti tedeschi, in particolare le auto. Basti pensare che nel 2022 in tutta Europa sono state vendute 15 milioni di vetture, mentre in Cina ben 27 milioni.
Quale problema hanno oggi i produttori di auto tedeschi in Cina?
Il pieno accesso al mercato cinese sta diventando più complicato per via non solo della cosiddetta deglobalizzazione e del ritorno di politiche protezionistiche a livello internazionale, ma anche perché l’apparato industriale tedesco è sempre meno in linea con le caratteristiche della domanda globale. Per quanto riguarda l’auto elettrica, pur avendo fatto degli investimenti, la Germania si è fatta superare in brevissimo tempo dalla Cina e fatica a tenere il suo passo. In questa situazione non basta più applicare la classica ricetta tedesca di recupero della competitività tramite la riduzione dei costi di produzione. La Germania deve quindi ripensare al suo modello di crescita.
A suo avviso come potrebbe farlo?
Penso che dovrebbe riequilibrare il modello di crescita accentuando il peso della domanda interna. Questo significa anche incrementare gli investimenti, che da molti anni sono stagnanti in Germania, specialmente quelli pubblici, per cercare di recuperare il ritardo accumulato nella doppia transizione energetica e digitale. Ovviamente questo richiede che lo Stato faccia la sua parte e utilizzi lo spazio fiscale disponibile, accettando anche la prospettiva di ricorrere al deficit di bilancio pubblico.
Politicamente c’è la possibilità di percorrere questa strada, visto che la Germania sembra non voler rinunciare al “freno al debito”?
Penso proprio di sì. Il blocco politico più importante in tal senso è rappresentato dai liberali della Fdp, che in questo momento sono in grossa crisi di consensi, dato che a livello nazionale sono accreditati del 3,5%. La loro posizione è la seguente: la Germania ha sì bisogno di investimenti pubblici, ma esiste già nel bilancio pubblico lo spazio per effettuarli, basta ridurre la spesa corrente. Ovviamente una scelta di questo tipo sarebbe politicamente impopolare. Non va trascurato il fatto che la carenza di investimenti pubblici in Germania è stimata in una forchetta tra i 400 e gli 800 miliardi di euro. È significativo che anche il Rapporto Draghi metta l’accento sugli investimenti.
Come mai la Germania si oppone al debito comune indicato dall’ex Presidente della Bce che pure potrebbe essere utilizzato per gli investimenti di cui ha bisogno?
La Germania è storicamente contraria all’emissione di debito comune. Ha fatto un’eccezione per il Next Generation Eu, che internamente è stato presentato come un programma limitato nel tempo e destinato a non ripetersi. Rispetto alla necessità di investimenti pubblici, credo che la soluzione preferita dai decisori tedeschi sia quella di spostare il problema a livello nazionale: toccherebbe ai singoli Stati trovare lo spazio fiscale per effettuarli. Questo naturalmente porterebbe a una frammentazione del mercato interno europeo ed è per questo che Draghi preferisce l’emissione di debito comune.
Tornando agli investimenti pubblici della Germania, puntando sulla doppia transizione sarebbe possibile cambiare il suo modello produttivo?
Credo che le esportazioni, specie quelle del settore manifatturiero, rimarranno fondamentali per la Germania. Si tratterebbe, quindi, di bilanciare l’attuale modello aumentando il ruolo della domanda interna, stimolando le importazioni e riducendo il surplus commerciale. Dunque l’export resterebbe importante come contributo al Pil, ma non sarebbe più l’unico volano della crescita, dato che verrebbe affiancato dai consumi e dagli investimenti pubblici.
Questi investimenti pubblici saranno possibili prima della fine della legislatura?
Credo che bisognerà attendere la nascita di un nuovo Governo. Fino a quando i liberali saranno nella maggioranza e avranno la guida del ministero delle Finanze non si potranno aumentare gli investimenti senza ridurre altre voci della spesa pubblica.
Questo vuol dire che ci sarà un altro anno di stagnazione tedesca con quel che ne consegue per gli altri Paesi europei…
Sì, la Germania rappresenta la principale economia europea e le difficoltà dell’apparato produttivo tedesco finiscono inevitabilmente per riverberarsi sugli altri Paesi, in particolare quelli più dipendenti dalle catene del valore tedesco, come la Repubblica Ceca, la Polonia, la Slovacchia, l’Austria, la Spagna e anche l’Italia.
Difficile allora che la Germania possa crescere dell’1% come stimato dall’Ocse.
Non sono in grado di quantificare, ma direi che le prospettive non sono rosee.
Nell’attesa che nasca un nuovo Governo, la Germania può cercare di tamponare la situazione, per esempio adoperandosi, com’è intenzionata a fare l’Italia, per una revisione dello stop alle vendite di auto con motore endotermico nel 2035?
Dubito che questa possa essere una soluzione. Prendiamo il caso Volkswagen: le sue difficoltà, a quel che leggo, dipendono soprattutto dal mercato cinese, dove la concorrenza dei produttori locali, specie per quel che riguarda l’auto elettrica, si fa sempre più agguerrita. Per uscire da questa situazione non sarebbe sufficiente rallentare la messa al bando in Europa dei motori endotermici. Non va poi dimenticato che l’industria automobilistica tedesca, a ragione, si considera e vuol essere sempre all’avanguardia tecnologica. Dunque, usare strumenti politici per difendere il mercato interno europeo da concorrenti più efficienti non sarebbe una mossa coerente con questa volontà.
Per essere all’avanguardia servono, quindi, gli investimenti. Privati o anche pubblici?
Le aziende tedesche sanno che devono effettuare investimenti importanti e per questo chiedono sostanzialmente dei sussidi finalizzati a un certo tipo di investimento o anche alla riduzione dei costi energetici. Se questi sussidi vengono dallo Stato tedesco tanto meglio: una catena di finanziamenti che discende da Bruxelles, con una serie di vincoli burocratici, sarebbe probabilmente meno accetta. Le imprese non vogliono, però, che sia lo Stato a decidere quali investimenti effettuare e su quali settori puntare.
Per la Germania si può aprire un problema sociale a seguito anche della disdetta unilateralmente dell’accordo con i sindacati sulla sicurezza dei posti di lavoro da parte di Volkswagen, che paventa la chiusura di uno stabilimento tedesco?
Più durano le difficoltà economiche e il senso di precarietà ad esse associato, più aumenta il bacino di consenso dei partiti anti-sistema. Questo processo è già visibile, in particolare nell’Est del Paese, come mostrato nelle ultime elezioni, ma è presente anche nell’Ovest.
Che alleanza si potrà formare dopo le prossime elezioni nazionali? Rivedremo la Grande coalizione Spd-Cdu-Csu?
Molto dipenderà, ovviamente, dal risultato delle elezioni, ma non è da escludere il ritorno alla Grande coalizione, così come un’alleanza tra Cdu e Verdi. Sarà poi interessante vedere che percentuali otterrà, su scala nazionale, la Bsw di Sahra Wagenknecht e quali rapporti riuscirà a costruire con gli altri partiti. Al momento, comunque, la Fdp non riuscirebbe a superare la soglia di sbarramento e non so come potrebbe cercare di tamponare la perdita di consensi. Potrebbe forse farlo decidendo di uscire dal Governo e puntando così al voto anticipato, ma non è detto che poi questo le consenta di superare il 5% dei voti.
Senza Fdp al Governo sarebbe comunque possibile effettuare quegli investimenti pubblici di cui parlava poc’anzi?
Credo che un nuovo Governo a guida Cdu che ascoltasse le imprese, che giustificasse la misura con necessità di sostenere la competitività dell’industria tedesca, un argomento a cui il pubblico tedesco è sensibile, potrebbe effettivamente cambiare la direzione sugli investimenti pubblici e anche introdurre una riforma al “freno al debito”.
Il direttivo dei Verdi si è dimesso in blocco a seguito degli ultimi deludenti risultati elettorali. Com’è stato possibile perdere così tanti consensi nonostante le politiche green portate avanti anche a livello europeo, la chiusura definitiva delle centrali nucleari e le scelte di politica estera del Governo tedesco?
I Verdi non hanno molto da mostrare al loro elettorato. Hanno imposto la chiusura delle centrali nucleari, autorizzando allo stesso tempo il ricorso al carbone per tamponare in parte la rinuncia al gas russo. Si sono resi molto impopolari cercando di imporre le pompe di calore per il riscaldamento domestico, dando l’impressione di voler far pagare i costi della transizione verde alle famiglie. In politica estera, spiccano per il loro atlantismo bellicista, che non è maggioritario tra la popolazione, soprattutto nell’Est.
Nelle ultime settimane è riemerso l’attivismo di Scholz per una pace tra Russia e Ucraina: solo una “mossa elettorale” o c’è dell’altro?
È stata una mossa elettorale per cercare di togliere un po’ di voti ai partiti alla sua sinistra, in particolare alla Bsw. Una parte importante degli elettori dell’ex Germania dell’Est, infatti, è contraria al proseguimento dell’invio di armi in Ucraina. Va in ogni caso ricordato che su questo tema lo stesso Scholz nel tempo ha avuto comportamenti ambigui: ha sempre seguito gli alleati, ma ha dato l’impressione di farlo in maniera riluttante.
Torniamo all’economia, come mai, a suo avviso, è stata espressa dal Governo Scholz un’aperta opposizione all’acquisizione di Commerzbank da parte di Unicredit, definita addirittura ostile?
Da quello che leggo credo che ci sia stata una levata di scudi da parte dei sindacati, preoccupati che un’acquisizione comporti una razionalizzazione con la chiusura di sportelli bancari in Germania e, di conseguenza, una perdita di posti di lavoro. Non dobbiamo dimenticare che i dipendenti sono rappresentati nel Consiglio di sorveglianza di Commerzbank, come avviene in altre aziende, e fanno sentire la loro voce. Penso ci sia inoltre il timore che una proprietà straniera possa essere pregiudizievole per le aziende tedesche dal punto di vista della concessione del credito. Commerzbank, in particolare, ha un legame storico con le PMI tedesche, che sono la spina dorsale del sistema produttivo manifatturiero. Questo spiega le reazioni di diffidenza, se non di aperta ostilità, del mondo politico tedesco nei confronti dell’operazione di Unicredit. Non ho idea di come andrà a finire. Al momento non si intravede un possibile “cavaliere bianco” tedesco: anche Deutsche Bank, come Commerzbank, è piuttosto malmessa.
Questa vicenda non ci dice qualcosa anche in merito ai rapporti tra Germania e Istituzioni europee, visto che quest’ultime valutano positivamente una fusione tra Commerzbank e Unicredit?
Non va dimenticato che sull’unione bancaria Berlino è da tempo scettica. La Germania si dice filo europea a patto che le regole siano sempre quelle di Maastricht, che hanno funzionato bene per lei, anche se adesso meno di un tempo, ma che hanno funzionato molto peggio per altri Paesi.
Se la Commissione europea cercasse di implementare il Rapporto Draghi si scontrerebbe quindi con la Germania?
Bisognerà anche vedere come concretamente la Commissione si posizionerà rispetto alle indicazioni del Rapporto Draghi. Per il momento si registra l’ostilità del mondo politico tedesco ad alcuni elementi fondamentali del Rapporto, in particolare la proposta sul debito comune. I problemi di competitività e la carenza di investimenti erano noti da tempo all’establishment tedesco, che per risolverli preferisce la strada nazionale a quella europea, sulla base del principio di sussidiarietà. L’idea di fondo, come ho spiegato prima, è che solo chi ha lo spazio fiscale e i mezzi finanziari possa effettuare gli investimenti necessari, per questo la Germania è più favorevole a una revisione della disciplina sugli aiuti di Stato.
A questo punto sembra sempre più difficile tenere insieme le esigenze tedesche con quelle di altri Paesi membri dell’Ue. L’Unione ha ancora un futuro?
Non mi aspetto che crolli, le élite europee troveranno il modo di calciare il pallone fuori area una volta ancora, ma potrebbe continuare il suo processo di lenta stagnazione. È quel che è successo all’Italia, ma questa volta su scala continentale.
(Lorenzo Torrisi)
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