STOCCARDA – Secondo una ricerca riportata da Tagesschau, esiste in Germania una “riserva silenziosa” di circa 3,2 milioni di persone tra i 15 e i 74 anni che, pur potendo lavorare, non lo fanno per vari motivi. I ricercatori hanno suddiviso gli inattivi in tre gruppi principali. Circa 372.000 persone non possono lavorare a causa di obblighi di assistenza. Altri 945.000 sarebbero disponibili per il mercato del lavoro, ma non cercano attivamente un’occupazione, spesso perché ritengono di non trovare un lavoro adeguato. Il gruppo più numeroso, con 1,85 milioni di individui, non cerca lavoro e non è immediatamente disponibile, anche se potrebbe essere interessato in futuro.



Le statistiche evidenziano anche una distribuzione diseguale tra i sessi: il 57% della “riserva silenziosa” è composto da donne. Molte donne tra i 25 e i 59 anni (il 32%) non lavorano per motivi di assistenza, mentre per gli uomini la percentuale è molto più bassa (4%). Si tratta di persone che sono spesso in possesso di un titolo di studio o una qualifica professionale. Enzo Weber, ricercatore presso l’Istituto per la Ricerca sul Mercato del Lavoro e le Professioni di Norimberga, ritiene che servizi assistenziali più efficienti e modelli di lavoro flessibili potrebbero contribuire a integrare queste persone nel mercato del lavoro.



Ma rendere i servizi assistenziali più efficienti non è facile. Handelsblatt riporta la storia di Michelle Franco, il cui capo le chiede regolarmente se può lavorare più dell’attuale 70%. Franco accetterebbe volentieri, ma ha una figlia di tre anni con un posto all’asilo solo fino alle 14:30. Non si tratta di un caso isolato. Un sondaggio di Stepstone su 2.000 genitori con figli sotto i dieci anni rivela che circa i due terzi dei genitori con lavori part-time preferirebbero lavorare a tempo pieno se la disponibilità degli asili fosse garantita. Il problema è che anche i servizi assistenziali sono a corto di personale.



La madre di tutti i problemi è ovviamente rappresentata dal calo demografico, che sottrae manodopera qualificata enon al mercato del lavoro. In generale, ci sono pochi addetti che lavorano meno che in passato, grazie ai diritti acquisiti. In certi settori, i lavoratori hanno un orario di lavoro flessibile e molto tempo libero, ma i servizi (treni, ospedali) sono inefficienti, quindi si perde molto tempo per fare le cose. Una maggiore partecipazione al mercato del lavoro potrebbe aumentare la manodopera disponibile, ma sottrarrebbe tempo agli obblighi familiari, potenzialmente esacerbando il succitato problema demografico.

Il tema è stato dibattuto su Tagesschau ARD-Presseclub, con Sonja Álvarez (WirtschaftsWoche), David Gutensohn (ZEIT Online), Alexander Hagelüken (Süddeutsche Zeitung), Julia Löhr (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Il moderatore Jörg Schönborn ha aperto le danze citando un episodio recente: un’azienda del Baden-Württemberg che vuole investire in Svizzera, non perché i costi sono inferiori, ma perché da quelle parti si lavora di più. Le statistiche relative al numero di ore lavorate nei principali Paesi sviluppati danno la Germania all’ultimo posto con 1.340 ore (al primo posto svettano gli Usa con 1.810 ore). Secondo Alvaraz, la Germania odierna è una repubblica part-time.

Nei prossimi anni i baby boomers se ne andranno in pensione, e la Germania perderà 3 milioni di lavoratori. Come rimpiazzarli? L’idea del ministro delle Finanze Lindner consiste nel convincere la gente a lavorare di più, detassando il tempo lavorato oltre le tradizionali 40 ore settimanali. Spd, Verdi e sindacati IG Metall vorrebbero invece lavorare di meno, naturalmente a parità di stipendio: la famosa settimana di 4 giorni lavorativi. Un’idea assurda, sostiene Löhr: si può fare, ma deve essere chiaro che ci sarebbe un impatto sul tenore di vita.

In controtendenza Gutensohn, secondo il quale non bisogna esagerare con il lavoro, altrimenti aumenterebbero i casi di burnout. Lavorando di meno, il tempo perso per malattia si riduce e l’efficienza aumenta, perché i lavoratori sono più sereni. Secondo Löhr, si tratta di una soluzione valida solo in casi particolari, non estrapolabile all’intera economia. Servirebbe una riforma strutturale, ma i politici si ricordano cosa è successo dopo le riforme Hartz contenute nell'”Agenda 2010″ di Gerhard Schröder: hanno risollevato l’economia tedesca dall’abisso post-riunificazione, ma hanno distrutto la Spd e la carriera dello stesso Schröder, che si è poi rifugiato in Russia per sbarcare il lunario. Come disse Jean-Claude Juncker, “sappiano quali sono le cose da fare, quello che non sappiamo è come essere rieletti dopo averle fatte”.

Su tutto questo si proietta l’ombra sinistra dell’Intelligenza artificiale. Dopo l’apparizione di “Her” sotto le mentite spoglie di GPT-4o, la fantomatica AGI (artificial general intelligence) sembra ormai molto vicina e potrebbe risolvere molti dei problemi del mercato del lavoro. Le IA attuali hanno però due grossi limiti: 1) non agiscono nel mondo reale: danno consigli per il week-end, ma non sono ancora in grado di prenotare hotel e treno al posto nostro; 2) non interagiscono con il mondo fisico: la consegna delle pizze è competenza degli umani.

Ecco quindi una possibile strategia per uno scenario distopico: disincentivare i lavori “digitalizzati” e favorire la migrazione dei lavoratori dal mondo digitale a quello reale. Si delinea quindi una nuova organizzazione del lavoro, in cui le IA svolgono i lavori ad alto tasso intellettual-digitale, coadiuvate dagli umani nei compiti che richiedono un’interazione con il mondo reale. Al di sopra delle IA, un ristretto manipolo di data scientist, che programmano le stesse. Per quanto tempo ancora, non si sa.

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